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Lavoro, due casi difficili

06/07/2011

Nella generale crisi dell'occupazione è importante saper riconoscere che esistono situazioni con problemi particolarmente complicati

In due articoli pubblicati nell’inserto di Repubblica Affari e Finanza il 4 luglio (di Alessandra Carini e di Luciano Gallino) ricorrono parole che descrivono il mondo del lavoro – occupati e disoccupati; temporanei e permanenti; precari: interinali; co.co.co; e altre – cogliendo condizioni e caratteristiche della pluralità dei soggetti coinvolti, e gli inevitabili processi di cambiamento (riprendendo una frase di Gallino, “se c’è una cosa tra le tante che non torneranno mai più come prima, è proprio il lavoro”). Dunque si va oltre le aggregazioni che in genere vengono usate (“donne”, “giovani”,“immigrati”) e si porta l’attenzione non soltanto sulle categorie più numerose e visibili, ma sulle persone: in vario modo segnate, nella fase che stiamo vivendo, dalle vicende dell’economia, della cultura, della mobilità globale.

Mi è sembrato dunque utile collegare le riflessioni suggerite da quelle letture a dati, analisi e proposte, di cui si è parlato nel corso di recenti incontri di studio promossi dalla “Fondazione Adecco per le pari opportunità”: si è affrontata la condizione di persone a “occupabilità difficile”.

Nel decennio di attività della Fondazione si sono realizzati studi, esperienze di intervento, iniziative positive mettendo al centro categorie particolari di persone e la loro difficoltà ad accedere al lavoro: il lavoro, visto non solo come fonte di sostentamento ma anche come esperienza di “normalità”. Sono state messe a fuoco molteplici, diversificate, e in molti casi poco visibili “condizioni di svantaggio”. E pratiche per l’individuazione dei “soggetti” in particolari condizioni di rischio, per l’orientamento e l’accompagnamento in inserimenti lavorativi “riusciti”, per stabilire contatti con imprese e contesti occupazionali.

Molte di queste situazioni sono ignorate nei dibattiti e nelle proposte di intervento “istituzionali”, più visibili. Farò riferimento a due “casi” (molti altri sono stati al centro di esperienze e di analisi).

Nel primo si tratta di giovani atleti, che vivono per alcuni anni esperienze di successo in varie carriere sportive. Anche molto visibili, con riconoscimenti e aspettative. E poi tutto questo finisce. Per molti è difficilissimo, anzi spesso impossibile, passare da questa fase della vita agli anni successivi, confrontarsi con se e come accedere al “lavoro”. In nessun modo preparati al “salto” a una condizione del tutto diversa da quella che davano per scontata. Difficile non soltanto trovarla, una strada, ma acquisire strumenti utilizzabili in un mondo poco conosciuto, e anche le necessarie risorse psicologiche ed emotive.

Non sono pochi casi: e si tratta di “giovani”, e del loro “futuro”.

Può sembrare che si tratti di una minoranza, di numeri limitati, ma non è così. Pensiamo a quelli, anche qui moltissimi “giovani”, in molti casi anche adolescenti (o addirittura bambini), che trovano un qualche ruolo che nel mondo dello spettacolo, nella pubblicità, in programmi televisivi: si viene selezionati e “ammessi” per una certa fase della propria vita, e poi si rimane fuori. I più vengono a trovarsi in situazioni temporanee, non regolamentate, “a rischio” per una varietà di aspetti: pochissimi realizzano una “carriera”. Questi percorsi, queste vicende, rimangono sotto silenzio, e così i possibili costi (umani e sociali).

Il secondo “caso” che considero riguarda quanti si trovano a essere “disabili” in seguito a gravi incidenti stradali: in prevalenza giovani uomini. Un dato soltanto, riportato in una recente rilevazione dell’Oms e della Banca Mondiale: sono soprattutto le moto di grossa cilindrata la prima causa causa di incidenti stradali in Europa (il numero è passato nell’ultimo decennio da due milioni e mezzo a sette milioni). In Italia i ricoverati al Pronto Soccorso sono stati – nel 2009 – più di 250.000, e 22.480 persone hanno vissuto lunghe degenze ospedaliere. Dopo anni di terapie e rieducazione tornano alla vita: ma nessuna prospettiva, per loro, di accedere a un lavoro, componente fondamentale per un percorso di “normalità”. Anche qui si tratta di dare visibilità a un problema (e a “numeri”) largamente ignorati, e di rendere possibili percorsi di inserimento lavorativo, di vita “normale”.

Ci sono molte altre situazioni di difficoltà, lo sappiamo: le dimensioni complessive dei problemi del lavoro e della “crisi”, i pesanti dati della fase attuale, ci vengono presentati di continuo. Ma portare l’attenzione su “casi”particolari, e su possibili iniziative di sensibilizzazione: su “buone pratiche”, su forme di collaborazione (tra istituzioni locali, nell’ambito del no profit, e anche per iniziativa di alcune imprese), penso sia utile.

C’è bisogno di dare visibilità alla molteplicità dei problemi e alle “persone” che li vivono, e a possibili esperienze positive, competenze e strategie adeguate, di iniziative di “rete”. Evitare analisi, e soprattutto proposte di “soluzione”, semplificate.

 

 

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