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L'economia è una scienza dura?
L’economia è una scienza falsificabile? Qualche anno fa durante un convegno in cui partecipavano sia fisici che economisti è stato fatto un sondaggio per capire come gli economisti intendono la loro disciplina, con il risultato che metà degli economisti hanno risposto affermativamente a questa domanda mentre l’altra metà negativamente. Situazione curiosa, che sicuramente riflette la spaccatura tra le diverse scuole di pensiero in economia, a cui ho già accennato. La questione non è di lana caprina, e non è puramente accademica. Come ha scritto il mio collega fisico Stefano Zapperi, in un commento ad un dibattito tra Andrea Ichino e il sottoscritto sulla questione dell’aumento delle tasse universitarie, “Affermare che l’economia sia una scienza dura al pari della fisica permette di far passare scelte politiche per risultati scientifici e quindi neutri… Io penso che l’economia tratti di temi che riguardano tutti direttamente, che sono influenzati dai nostri comportamenti e quindi riguardano la politica. La fisica si occupa invece di fenomeni naturali che nella maggior parte dei casi avvengono indipendentemente dalle nostre scelte. Porre l’economia e la fisica sullo stesso piano è sostanzialmente una truffa.”
Quando gli economisti “si sporcano le mani con i dati” (come alcuni dichiarano di fare) siamo sicuri che il risultato alla fine non sia quello di “sporcare i dati con le ideologie”, con quelle ideologie (preconcetti considerati veri a prescindere dall’osservazione empirica) che invece guidano molte delle ricette che sono propinate come soluzioni scientifiche? Certo è che la falsificazione di una teoria scientifica è altra cosa dall’utilizzare alcuni dati opportunamente selezionati o accuratamente manipolati per portare acqua al proprio mulino. A me sembra che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca: il prestigio di una scienza dura senza pagare il dazio della falsificabilità, che è la vera e unica chiave di volta d’ogni scienza dura. Queste sono questioni fondamentali che vanno poste perché se non si ammette che la crisi economica ha prodotto una chiara crisi nei modelli economici dominanti, e se sono sempre i soliti, indipendentemente dalla bontà delle loro previsioni, a suggerire scelte cruciali in campo economico (ovvero in qualsiasi campo della vita pubblica) avendo a disposizione l’intero universo mediatico come accade in Italia, con ogni probabilità si continueranno a fare scelte sbagliate che peggioreranno le cose, mascherandole però da scelte dettate da una scienza quantitativa.
Questi sono i motivi, tra gli altri, per cui lo scorso 16 maggio a Londra è stata lanciata una nuova associazione di economisti, che è già diventata una tra le più grandi del mondo e senz’altro la più inclusiva geograficamente, che si propone di essere pluralista, inclusiva e democratica con lo scopo di diffondere il pensiero critico nella rete e introdurre un metodo aperto nella valutazione scientifica: la World Economics Association. Nelle parole di presentazione di Grazia Ietto troviamo di nuovo il tema del ruolo delle ideologie in questa disciplina: “Viviamo in tempi difficili per gli economisti: l’opinione pubblica e i media ci guardano con sospetto, mentre all’interno della professione si nota arroganza, disagio e rabbia. L’arroganza sta dalle parti di quelli che credono che avevano e hanno ragione a propagandare il modello neoclassico e neoliberista d’economia malgrado la crisi (tutt’altro che superata). Per loro è solo questione di tempo; il modello è valido e con il tempo le politiche di tagli, combinate con ritocchi dal lato dell’offerta, porteranno alla ripresa delle economie e il modello di capitalismo dominato dalla finanza (o a trazione finanziaria) continuerà a trionfare. Il disagio è quello di quanti, avendo appoggiato il modello neoclassico, si trovano ora a dover giustificare la loro posizione. C’è rabbia invece tra i molti che non hanno mai aderito al modello neoclassico e neoliberista, compresi i pochi che avevano previsto la crisi sulla base di teorie e modelli alternativi. La loro voce non è stata ascoltata né a livello politico né è stata ospitata sulle pagine delle riviste scientifiche considerate autorevoli e prestigiose.” .
L’anno scorso, l’associazione Paolo Sylos Labini aveva promosso il Manifesto per la libertà del pensiero economico, firmato da centinaia di economisti e persone della cultura di tutto il mondo, con analoghe premesse: “Oggi dopo anni di atrofizzazione si affaccia un nuovo sentire al quale la scienza economica deve saper dare una risposta. La crisi globale in atto segna un punto di svolta epocale. Come in tanti hanno rilevato, oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore. Queste teorie non avevano colto la fragilità del regime di accumulazione neoliberista. Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. E’ necessario ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici.”
Altre iniziative sono state intraprese in Francia e in Svizzera. Il dibattito nel campo è dunque molto più aperto ed infuocato di quello che sembra da una lettura dei maggiori quotidiani del nostro paese, che negli ultimi anni, a parte rare eccezioni, hanno subito un ruolo di colonizzazione da parte degli economisti di scuola liberista (qui da noi molti insegnano alla Bocconi). In conseguenza dell’affermarsi di questo pensiero unico, molte scelte cruciali politiche ed economiche sono state influenzate in maniera del tutto trasversale; dei danni causati all’università e alla ricerca abbiamo già ampiamente discusso in questo blog: chiaro esempio del fatto che non si sta parlando del sesso degli angeli, piuttosto di quesiti fondamentali che riguardano tutti e che non possono essere nelle mani di pochi guardiani dell’ideologia.