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Crisi, anno settimo. Dove è finita la sinistra?

08/04/2014

Davanti ad una crisi di portata storica, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi

L’inizio della crisi, nel 2007, era avvenuto in un contesto politico europeo dominato dalla destra. In Spagna e Regno Unito i governi progressisti furono velocemente rovesciati dall’elettorato, mentre in Germania e Francia i conservatori la facevano da padroni. In Grecia ed Italia, poi, l’emergenza economica portò all’emergenza politica con la creazione di governi tecnocratici. La risposta alla crisi, dunque, fu dominata da politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista e basate su rigore fiscale e centralità del mercato. Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile. Se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea, ed Unione Monetaria. Uno svuotamento cioè delle funzioni dei Parlamenti nazionali, o meglio, una prevalenza chiara di un certo tipo di scienza economica sulla democrazia – piegata ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte (dall’austerity).

Negli ultimi anni, però, il panorama politico è cambiato, con la vittoria di Hollande e poi con la formazione di un governo squisitamente politico come quello di Renzi. Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi. La sinistra, in effetti, aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterand già nel 1983, senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia. Eppure, quella sbornia neo-liberista denunciata da D’Alema qualche anno fa sembra lungi dall’essere passata. Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi. Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi.

In realtà nel mondo accademico un forte movimento di rigetto dell’austerity c’è stato, ma non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse.

Socialisti e conservatori non sono chiaramente totalmente assimilabili, ma le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica. Anzi, tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo.

In Francia, dove i socialisti sono andati in effetti al potere, questo trend è stato ancora più evidente: Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine. In un primo momento si è cercato di contrastare l’austerity alzando le tasse, salvo poi, negli ultimi mesi, rilanciare l’abbassamento delle stesse, e i tagli alla spesa pubblica. Giustificando il tutto con il (neo)classico “l’offerta crea la domanda”, l’articolo di fede dei neo-lib, che sancisce infine la perfetta comunanza tra conservatori e socialisti, con il pensiero unico economico che diventa pensiero unico politico – quello che in fondo era il leit motif del tutt’altro che morto Washington Consensus (i).

In Italia, ovviamente, la storia si è ripetuta. Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso. D’altronde il responsabile economico del PD, Filippo Taddei, già in passato si era distinto per definire l’austerity un falso problema – le riforme e non la politica economica sono la risposta alla crisi. Questa vulgata è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi. La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria, e poi santificato a Berlino. Ed in visita nelle varie cancellerie dell’Europa, da Parigi a Londra, Renzi ha fatto il giro delle 7 chiese (e mercati) dichiarando di rifarsi ogni volta a modelli politici diversi ma che in comune hanno l’allergia a spesa pubblica e politiche anti-cicliche. Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore. A più riprese il Premier si è detto indignato per la disoccupazione galoppante, che dovrebbe essere risolta da una nuova contrattualistica, rimanendo dunque in un ottica che nega qualsiasi ruolo alla domanda – facilitiamo gli investimenti dando più libertà/meno costi agli imprenditori, e, come per magia, la disoccupazione calerà. Senza neanche entrare nel merito – o meglio, nei demeriti – del jobs act, la filosofia del supply side rimane assolutamente immutata.

In realtà una piccola concessione all’importanza della domanda c’è stata, con l’incremento promesso in busta paga per i redditi medio-bassi. Il Pd l’ha presentata come una rivoluzione copernicana, e Taddei è andato a tutti i talk show per spiegare che il Pd mette il lavoro al centro della politica e dell’economia. Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane guardiano dei conti in ordine, che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro. La piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato denunciata da Polanyi commentando la crisi del ‘29. A differenza di allora, però, il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi. Cancellando però, allo stesso tempo, qualsiasi ruolo politico significativo per la sinistra stessa.

 

i Basta qui ricordare le parole di Williamson – cui tuttora dobbiamo la definizione di Washington Consensus, secondo cui: “It would be ridiculous to argue that as a matter of principle every conceivable point of view should be represented by a mainstream political party. No one feels that political debate is constrained because no party insists that the Earth is flat…. The universal convergence [of economic policies] seems to me to be in some sense the economic equivalent of these (hopefully) no-longer-political issues.” (Williamson, J. (1993). "Democracy and the Washington Consensus." World Development 21(8), p. 1330)

 

 

 

 

 

 

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