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Crescita, qualche domanda a Euro-pen

12/03/2014

Dibattito sulla crescita/È realistico, oltre che sensato, pensare di uscire da questa crisi affidandosi alla crescita e a politiche espansive? Sarà mai possibile ipotizzare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista? Alcune domande agli “economisti progressisti” alla vigilia del forum di Bruxelles del 19 marzo

La Rete europea degli economisti progressisti ha convocato un forum su “Un’altra strada per l’Europa” il 19 marzo a Bruxelles. Tra gli italiani è annunciata la presenza di Andrea Baranes, Mario Pianta, Luciana Castellina, Stefano Fassina, Monica Frassoni, Giorgio Airaudo, Guido Marcon. La base di discussione è l’uscita dalle politiche recessive, la priorità all’occupazione, l’abbandono delle teorie economiche liberiste in un quadro di democraticizzazione delle istituzioni europee. Obiettivi sacrosanti. Vorrei però che il Forum avesse la pazienza di rispondere ad una domanda semplice che in molti ci poniamo: è realistico, oltre che sensato, pensare di uscire da questa crisi affidandosi alla “crescita” (del Pil, è sempre sottinteso) e a “politiche espansive”?

Di recente un attento storico dell’economia, Thomas Piketty (autore di Capital in the Twenty-First Century, Cambridg, MA, Belknap Press, 2014), ha affermato: “Sul lungo periodo la crescita della produzione non supera mai l’1- 1,5% all’anno (…) Dobbiamo farcene una ragione e smetterla di sognare un’illusoria crescita dell’economia”. Dello stesso tenore le affermazioni di Larry Summers, che hanno fatto scalpore essendo stato rettore di Harvard e segretario al Tesoro di Clinton (vale a dire uno dei maggiori responsabili della deregolamentazione del settore finanziario che ha portato al crack finanziario del 2008). Parlando alla conferenza del Fondo Monetario Internazionale nel novembre del 2013 a New York, Summers ha diagnosticato una fase di stagnazione di lungo periodo: “Secular Stagnation”. In verità lo aveva già detto Paul Krugman: “sappiamo che l’espansione economica del 2003-2007 è stata guidata da una bolla – si può dire lo stesso dell’ultima parte dell’espansione degli anni ’90, e in effetti si può dire lo stesso degli ultimi anni dell’espansione Reagan (Paul Krugman, Secular Stagnation, Coalmners, Bubbles, and Larry Summers,The New Yorker, November, 16, 2013). Ha commentato un giornalista di Repubblica (Maurizio Ricci, L’era della crescita Zero, “la Repubblica”, 10.12.2013): “il lungo boom che ha accompagnato due secoli e mezzo di rivoluzione industriale si è esaurito” e dobbiamo rassegnarci ad una “nuova normalità”. Cioè, ad uno “sviluppo stazionario”. Un bella inchiesta di un giornalista nordamericano pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale (Harold Meyerson, La fine della classe media, 7 marzo 2014) si chiede se “L’età dell’oro non tornerà più”. E risponde affermando che i trenta anni successivi alla seconda guerra mondiale sono stati un “fenomeno irripetibile”. Almeno per noi, per l’ex Primo mondo. Potrei citare molti altri economisti della New Economics Foundation di Londra (Tim Jackson, Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Edizioni Ambiente 2011; Emanuele Campiglio, L’economia buona, Bruno Mondadori 2012) e della bioeconomia (Mauro Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri, 2013), per non tornare alle preveggenti, lucidissime analisi di André Gorz, che ci invitano a trovare delle vie di uscita non fondate sulla crescita e sulla espansione.

Con molta modestia e, probabilmente, con grande ingenuità mi sono fatto queste due domande a cui vorrei che il convegno di Bruxelles rispondesse. Si dice: per aumentare l’occupazione bisogna far cresce la domanda interna e le esportazioni. Ma se le merci di largo consumo (specie quelle più a basso costo) sono tutte d’importazione, un aumento della domanda interna quale occupazione accrescerebbe? Prima, evidentemente, servirebbe intervenire sulla bilancia commerciale. Ma per farlo servirebbe regolare in modo del tutto diverso i mercati (vedi i trattati di libero scambio) e la internazionalizzazione delle imprese transnazionali (delocalizzazioni produttive). Non credo che vi siano più (né, d’altronde, sarebbe giusto) le condizioni per ottenere ragioni di scambio penalizzanti i “paesi in via di sviluppo” che ora si chiamano, non a caso, “emergenti”.

Seconda domanda. Viene sempre auspicata come leva anticrisi l’aumento degli investimenti (“stimoli”, sgravi fiscali, opere pubbliche, ecc.) per far ripartire le imprese. Ma se i denari con cui si fanno queste operazioni li si prende a debito (emissioni di titoli pubblici, bond, project financing, ecc.) e se sul debito bisogna pagare gli interessi e se gli interessi sono più alti della crescita dell’economia “reale”, alla fine a guadagnarci non saranno mai i salari, ma le rendite finanziarie. Esattamente quello che è successo negli ultimi trent’anni: la quota dei salari sul reddito nazionale è diminuita a favore di quella andata ad appannaggio dei profitti e delle rendite. Se le cose stanno così, allora, condizione preliminare non è l’investimento (pubblico o privato) in sé, ma la ristrutturazione in radice del funzionamento della finanza.

Sono queste le domande che le donne e gli uomini della strada si fanno tra i banchi del mercato che vendono ormai quasi solo merci cinesi, sotto i cantieri delle “grandi opere” finanziati dalla finanza di progetto, in coda per ottenere un prestito con interessi da strozzini, alla ricerca disperata di un lavoro che non c’è quando invece di cose utili da fare ce ne sarebbero anche troppe. Domande a cui un numero sempre più grande di persone cominciano a darsi delle risposte da soli organizzandosi in gruppi di acquisto e banche del tempo solidali, in cooperative di comunità, in gruppi di auto-mutuo-aiuto per un welfare di prossimità, in gestioni condivise dei beni comuni, in scambi non monetari o con monete locali. Da cui l’ultima domanda agli economisti progressisti: che posto c’è nelle nuove teorie economiche non convenzionali per l’economia solidale o sociale o civile o morale, a dir si voglia? È possibile – almeno sul piano teorico e di visione strategica – avere queste come punto di approdo per una conversione strutturale dei rapporti sociali di produzione e di consumo? Sarà mai possibile ipotizzare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista?

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