Home / Newsletter / Newsletter n.298 - 25 gennaio 2014 / Paro Campesino, la Colombia sfida gli Usa

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Paro Campesino, la Colombia sfida gli Usa

24/01/2014

Ttip/3 A un anno dalla firma dell'accordo tra Colombia e Usa il saldo commerciale tra i due paesi peggiora. I contadini in piazza per dire no allo scambio ineguale

“Taglia quei pneumatici”. Il campesino perfora con il machete le quattro ruote del bus che il suo gruppo aveva fatto sistemare di traverso per bloccare la strada. All’arrivo dei soldati, il gruppo si disperde, ma il blocco del traffico è ormai riuscito, sotto lo sguardo silente dei passeggeri e degli automobilisti, che in parte si lamentano ma in buona parte risconoscono di appoggiare la protesta.

Sono alcune delle scene vissute nell’agosto dell’anno scorso, quando la Colombia viene travolta dal Paro Campesino, la rivolta degli agricoltori per le condizioni insostenibili delle campagne. Bogotá vede la centrale Plaza de Bolivar riempirsi in cinque moltitudinarie manifestazioni, grazie agli studenti che appoggiano la Revolución de las Ruanas (dal nome del simil poncho che sono soliti indossare i contadini). Gli accusati principali sono i Tratados de Libre Comercio (TLC).

Sotto il mandato dell’attuale presidente J.M. Santos la Colombia implementa o firma trattati con Canada, Stati Uniti, Unione Europea e sta preparando un accordo con Israele. Tuttavia, la politica è in perfetta continuità con il predecessore Uribe, che firma accordi con EFTA (Svizzera, Liechtenstein, Islanda e Norvegia), Cile e vari paesi Centroamericani e che negozia il contenuto principale dell’accordo con gli USA (non ratificato inizialmente per le denunce dei sindacati USA sul mancato rispetto dei diritti umani).

Gli effetti sono immediati. Secondo i dati del Census Bureau, tra il maggio 2012 e il maggio 2013, il primo anno dopo la firma dell’accordo con gli USA, il saldo commerciale con il gigante nordamericano peggiora drasticamente. Depurando per l’inflazione (per semplicità usando grezzamente la variazione annua dei prezzi al consumo) l’export verso gli usa diminuisce dell’8% mentre le importazioni aumentano del 14% (dati del Census Bureau). Il dato più importante tuttavia è che mentre (2013 su 2012) l’export agricolo colombiano scende del sei per cento circa, l’import cresce del 10%. Tutto ció in barba ai vantaggi comparati della teoria economica ortodossa. La motivazione è semplice: i Paesi ricchi quando negoziano lo fanno da posizione di forza e garantiscono eccezioni e pesanti sussidi ai settori agricoli, dove i Paesi a basso o medio livello di reddito hanno una quota rilevante di valore aggiunto e occupati.

Le trasformazioni strutturali indotte da una raffica di trattati sono profonde. Si osserva una diminuzione della quota manifatturiera (nel 2012 al 13% secondo la CEPAL), riducendo così il grado di diversificazione dell’economia e aumentando il rischio di crisi, anche a causa di un tasso di cambio reale che si è andato apprezzando di circa il 40% dal 2003 al 2012, secondo la stessa fonte. In effetti dal 2008 la tassa di informalità è rimasta pressoché stabile nonostante la crescita economica accelerata.

Si osserva anche una crescita delle industrie estrattive: la locomodora minera rappresenta attualmente il traino dell’attività produttiva con una quota sul PIL del 12.3% (fonte CEPAL), con l’effetto di trasformare il business principale dei gruppi armati illegali, che hanno sostituito il narcotraffico con le miniere illegali, i cui profitti sono molto più facili da “riciclare”, e con ovvie conseguenze nefaste, come rivela l’orami insostenibile situazione del settore del carbone, in mano a multinazionali come la Drummond, recentemente finita nell’occhio del ciclone per la violazione delle norme ambientali.

Infine si osserva un persistente deficit di parte corrente, nel triennio 2010-2012 stabilmente al 3% del PIL, con conseguente afflusso massicio di capitali e crescita allarmante del prezzo degli attivi, per esempio nello stesso periodo il prezzo delle case è cresciuto di circa il 120%.

Un simile afflusso netto di capitali caratterizza tutta la regione. In particolare, i tre discepoli del Neoliberismo (Perú, Cile e Colombia) hanno un saldo netto dell’investimento straniero diretto cresciuto a tassi da brivido negli ultimi tre anni, al punto da recuperare la flessione avvenuta a seguito della Grande Recessione 2008-2010. L’aumento sul picco del 2007 (in termini nominali) è stato del 126% in Perú, del 96% in Colombia e del 20% in Cile.

Quest’ultimo ci mostra l’ultima grande lezione dei Trattati firmati in condizioni asimmetriche. Nonostante il plauso internazionale per l’intelligente politica di riserva obbligatoria non remunerata, che limita i flussi di capitale speculativi senza colpire in modo significativo chi investe a lungo termine, Il Cile ha dovuto cambiare strada perché cosí prevede il TLC, segno che come sempre la finanza sta dietro i proclami del libero commercio.

Tutti gli articoli di Sbilanciamo l'Europa n.1 del 24 gennaio

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