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Una “spending review” di sinistra?
Per ridurre e razionalizzare la spesa pubblica in modo da favorire sviluppo e produttività non basta fare tagli: servono nuovi approcci, coerenti con gli obiettivi del paese
Dal numero di MicroMega sul “Ritorno dell'eguaglianza” ora in edicola, anticipiamo una parte dell’articolo di Paolo De Ioanna “È possibile una spending review di sinistra?”
Qual è la spending review che aiuta a riaprire lo stretto sentiero dello sviluppo della nostra economia? Si può subito osservare che ogni riflessione sui servizi resi dal sistema delle pubbliche amministrazioni si muove tra tre polarità: ricombinare i fattori di produzione in modo da rendere lo stesso servizio con meno risorse (efficienza); spostare risorse da un servizio a un altro (ridefinire le priorità); ridurre comunque il perimetro dei servizi e la spesa che li finanzia.
Le politiche pubbliche si presentano come soluzioni a problemi complessi di rilevanza collettiva. Esse devono essere efficaci ma soprattutto efficienti nell’utilizzo delle risorse: denaro, tempo, soggetti, individuali e collettivi, coinvolti. Nel distribuire costi e benefici devono essere eque. Esse inoltre, in un contesto democratico, devono essere capaci di dare risposte a questi problemi complessi, attraverso meccanismi non autoritari, idonei a trasferire nel processo decisionale la voce partecipata dei cittadini.
La questione cruciale che domina il dibattito politico in Italia è quella del controllo della dinamica delle spese e delle entrate; dove la parola controllo allude all’effettiva idoneità delle scelte politiche e delle relative strumentazioni, giuridiche, organizzative, gestionali, manageriali eccetera, a guidare un processo e a non essere schiacciati da spinte esterne, che premono sulla gestione, annuale e prospettica, dei costi (tassi di interesse in particolare); costi connessi con la gestione del debito pubblico. Al centro dunque c’è il debito pubblico e la sua stabilizzazione di medio periodo secondo i vincoli europei; c’è più in generale il nesso tra crescita dell’economia e controllo dell’equilibrio della finanza pubblica.
In passato, tutte le volte che si è aperto il cantiere della riforma della pubblica amministrazione si è ripetuto lo stesso schema: commissioni di studio, presiedute da accademici, rassegnano idee e proposte di un certo interesse per innovare strumenti e procedure; ma i risultati risultano sempre assai deludenti. Perché? Colpa dei politici spendaccioni, sempre alla ricerca del consenso a buon mercato? Colpa dei cosiddetti tecnici che in realtà poi operano sempre al riparo e col consenso dei politici di riferimento? Colpa di una tecnostruttura burocratica che assorbe e smorza ogni velleità riformatrice? Domande che hanno a che fare da vicino col rapporto tra politica e tecnica nel nostro paese: un nesso cruciale della vita democratica.
Va subito detto che per modulare, riorganizzare e innovare nelle politiche pubbliche gli strumenti sono cruciali; senza una comprensione esatta delle loro dinamiche, delle culture, giuridiche, economiche e gestionali, che mobilitano e degli interessi che mettono in gioco la strumentazione vive una vita sua propria, che riproduce e difende le culture e gli assetti dentro cui ha costruito la sua storia e la sua stratificazione di potere. Ora una certa autonomia dei saperi incorporati nella macchina amministrativa è forse necessaria per distanziare questa macchina dalla pressione immediata della politica; ma questi saperi devono risultare del tutto trasparenti, nei metodi e nelle assunzioni che orientano le scelte.
La politica pensa di guidare le danze; ma in realtà spesso resta prigioniera di un rapporto di cui perde il controllo; e se i governi, come avvenne nella cosiddetta Prima Repubblica, si susseguono a intervalli assai brevi, la macchina burocratica è la sola guida stabile all’interno delle politiche pubbliche.
La spending, questo dunque è il filo che intreccia questa riflessione, potrebbe essere un’occasione per innovare e ripensare le politiche pubbliche e le strutture che le supportano, al servizio di idee e linee di azione che devono sostenere un ciclo di reale sviluppo, innovativo e competitivo della nostra economia.
Si tratta di cogliere un tratto specifico della lunga vicenda della riforma mancata della nostra pubblica amministrazione: quello di un assetto procedurale dominato da categorie giuridico-contabili che non riescono mai a coniugarsi con una valutazione fine e nitida degli obiettivi e dei risultati, economici e finanziari, che le diverse politiche settoriali intendono conseguire e, soprattutto, hanno in concreto conseguito. È come se tra la guida politica e la realtà si interponesse sempre un servosterzo contabile che devia la linea di marcia verso risultati leggibili e li trasforma solo in evidenze finanziarie; naturalmente questo è il compito della contabilità finanziaria; ma essa deve essere, ex ante ed ex post, al servizio di risultati e obiettivi economici per aiutare a capire se e dove occorre innovare, cambiare, retrocedere e avanzare negli impegni di spesa e nel relativo mix, di entrate fiscali e debito, che lo finanzia. Se la pubblica amministrazione viene concepita come un motore, non si tratta solo di ridurre il flusso della benzina; si tratta di modificare e riprogettare parti cruciali della meccanica per avere, con la stessa benzina, risultati migliori per i cittadini e le imprese (…).
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