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L’economia mafiosa e la democrazia negata

16/02/2013

La rotta d'Italia. Il dibattito elettorale ignora la negazione della democrazia che esiste nei territori dove domina la criminalità mafiosa. Un silenzio inspiegabile, quando mancano le condizioni minime di sicurezza per il voto

Nell’analisi sul fenomeno delle astensioni dal voto una delle cause, anche sulla base di sondaggi, viene individuata nella condizione di povertà. L’ipotesi è che tra i più lontani dalla rappresentanza politica siano, più di altri, i “perdenti”: gli italiani impoveriti dalla crisi, più vulnerabili, con minore istruzione [1]. Detto in altro modo, il reddito basso finisce col rappresentare un fattore distorsivo della democrazia.

Vorremmo contribuire all’individuazione di altri fattori distorsivi esaminando il caso di un micro-territorio in cui fino a ieri l’economia mafiosa ha letteralmente dominato settori produttivi alterando i mercati e determinando per i cittadini condizioni di insicurezza. Proviamo a descrivere il caso in questione partendo da due premesse metodologiche.

Nella maggior parte degli approfondimenti sul tema del rapporto tra mafia e voto si pone attenzione a forme di “scambio”, sicuramente realizzate in passato. Il nostro commento punta invece, più che alla individuazione di rapporti tra mafia e politica, a mettere in luce come l’identificazione tra mafia e parte dell’economia di un territorio connoti una condizione complessiva del territorio stesso in termini di qualità della vita, sicurezza, fiducia nello Stato. Condizione che determina in modo significativo il carattere del comportamento elettorale.

Seconda premessa. Le ricerche sul rapporto tra istituzioni, mercato e criminalità organizzata hanno sempre un taglio macroeconomico e si riferiscono a dimensioni territoriali di grande ampiezza. Ne vengono fuori correlazioni e stime significative ma, almeno all’apparenza, marginali rispetto alla struttura socio-economica complessiva dello spazio cui si riferiscono[2]. Se, cambiando lenti, ci si concentra su un luogo ristretto, la relativa marginalità dei fenomeni illegali si ingrandisce e, a volte, sembra addirittura identificarsi con l’intera struttura socio-economica dell’ambiente osservato.

Prendiamo il caso di Gela, una cittadina della Sicilia Orientale con un importante insediamento industriale e con una vocazione agricola[3]. L’indebolimento di due storiche organizzazioni criminali, Cosa Nostra e Stidda, che agivano su quel territorio, aveva lasciato un vuoto riempito subito da una sorta di Terzo Polo, solo recentemente sgominato con l’arresto di una trentina di soggetti. È impressionante la ricostruzione delle attività di questo Terzo Polo, dal 2005 ad oggi. Secondo gli investigatori, il nuovo sodalizio mafioso era dedito alle estorsioni, alla gestione di un vasto giro di usura, alla ricettazione, all’imposizione del prezzo della frutta, con forme di concorrenza illecita e con l’uso di minacce e violenza. Inoltre, era entrata nella raccolta di materiali ferrosi ai danni di commercianti e artigiani e nell’occupazione abusiva (cui seguivano operazioni di vendita) di case costruite dall’Istituto Autonomo per le Case Popolari (IACP).

L’organizzazione (con uomini, armi e mezzi di trasporto) configurata in “squadra” eseguiva furti di denaro e gioielli nelle abitazioni cittadine mentre nelle campagne andava alla ricerca di rottami metallici. Il furto subìto di mezzi di trasporto era ormai consuetudine come un’imposta da corrispondere: auto, furgoni, attrezzature e automezzi industriali, infatti, venivano poi restituiti con il cosidetto metodo del “cavallo di ritorno” dietro pagamento cioè di un riscatto in denaro. Un’attenzione particolare era posta all’incendio di automobili su commissione, con un tariffario per il servizio che variava da 200 a 500 euro per vettura associata (un pentito ha confessato di aver incendiato 80 auto). Un mercato parallelo del credito, creato da questo Terzo Polo, prevedeva concessioni di prestito con tassi del 240% annui a debitori sottoposti poi a pressioni insostenibili per il relativo rientro dal prestito.

Ora, il procuratore capo di Caltanissetta, cui si deve il successo dell’operazione che ha portato alla luce questo complesso intreccio malavitoso, concentrato su un territorio relativamente limitato, e dalla cui relazione abbiamo tratto i dati citati, lamenta organici e strumenti di prevenzione e indagine ridotti, con carichi di lavoro insostenibili (in Sicilia il “taglio” di alcuni tribunali ha portato a una notevole riduzione dell’organico della magistratura).

In sostanza, quanto descritto trova difficoltà di contrasto nell’attuale sproporzione, che ha validità generale, tra la complessità dei fenomeni criminali, anche in piccole realtà urbane, e la riduzione di uomini e risorse che con questa complessità dovrebbero confrontarsi. Quasi ci fosse un campionato di serie A nel quale si gareggia e si raccolgono punti con azioni anti-mafia eclatanti (i sequestri dei beni mafiosi cui spesso non seguono utilizzazioni sufficienti dei beni stessi) e un campionato minore dove anche una vittoria esaltante passa in second’ordine, e con la quale non si vince alcun premio mediatico.

Qualche osservazione alla luce di questa succinta descrizione dell’impatto della alta criminalità organizzata su un micro territorio. Quel che si riscontra è il totale azzeramento delle normali condizioni di sicurezza con riflessi sulla qualità della vita; l’esistenza di fattori distorsivi sui mercati; l’asimmetria tra iniziative culturali anti-mafia (che a Gela come in altri luoghi della Sicilia hanno cadenza quasi quotidiana) e la difficoltà a tradurle in azioni concrete di contrasto. Ancora, un almeno apparente distacco della cosidetta società civile, che sembra dimostrare un alto tasso di tolleranza e la volontà di tenersi fuori da processi di repressione senza indulgere in manifestazioni di aperta denunzia. Peraltro, qualora messe in atto, ignorate dai mezzi di comunicazione a livello nazionale.[4] Come continua ad accadere di fronte alla reiterazione di atti criminali: dopo l’operazione della quale parliamo sono stati distrutte con incendi dolosi due scuole (20 gennaio).

La domanda d’obbligo: c’è stata in questi ultimi anni, alla luce di quanto scoperto, una condizione di democrazia a Gela e in altri agglomerati urbani nel Mezzogiorno (pensiamo, in particolare, non solo a comuni ma anche a periferie emarginate di grandi città), tale da consentire, ad esempio, espressioni di (o astensioni dal) consenso elettorale non condizionate? Se la risposta è dubitativa, come è possibile che, nelle varie agende politiche in circolazione oggi, non si parli delle politiche di sicurezza necessarie per eliminare forme di condizionamento o di sfiducia nei confronti delle istituzioni i cui rappresentanti andrebbero eletti?

[1] M.Pianta, Il non voto dei poveri, “Sbilanciamoci.info”, 5.02.2013

[2] Si veda per un’analisi recente che smonta una serie di luoghi comuni “Progetto Pon Sicurezza 2007-2013 Gli investimenti delle mafie, Progetto I beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali nelle regioni dell’Obiettivo Convergenza: dalle strategie di investimento della criminalità all’impiego di fondi comunitari nel riutilizzo dei beni già destinati, Università Cattolica del Sacro Cuore e Transcrime”.

[3] Gela, comune della provincia di Caltanissetta, con una popolazione di circa di 77 mila abitanti, è un importante centro agricolo (per la produzione di ortaggi) e industriale (per la presenza del Petrolchimico dell’Eni e della relativa zona industriale) della Sicilia.

[4] Ne è prova la totale assenza di notizie sul caso descritto da parte dei media nazionali. Ha parlato di “Terzo Polo” mafioso a Gela il Giornale di Sicilia del 16 gennaio 2013 (G.Martorana, Il “Terzo Polo” mafioso: sgominato a Gela nuovo clan). E ha riferito la notizia degli incendi lo stesso GdS il 21 gennaio 2013.

 

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