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La fase 2 e la riforma del lavoro

09/01/2012

La riforma del lavoro deve mirare a: riequilibrio distributivo, vera flessibilità, sostegno ai redditi, formazione, partenariato socioeconomico

Appare chiaro che sulla cosiddetta “fase due” delle misure per il superamento della crisi grava l’arduo compito di neutralizzare gli effetti delle misure adottate con la manovra cosiddetta “salva Italia”. Dalle misure della “fase uno” discendono infatti due effetti certi e uno incerto. Gli effetti certi sono l’aumento del livello dei prezzi e la diminuzione del reddito nazionale (una ulteriore spinta alla recessione di cui certo l’Italia non aveva bisogno). L’effetto incerto è quello della diminuzione del debito e del rapporto debito/Pil, effetto compromesso dalla diminuzione del Pil, dalla conseguente diminuzione del gettito fiscale e dall’aumento dell’onere per il servizio del debito. I “mercati finanziari” si permettono di esigere remunerazioni elevate per il “rischio Italia” soprattutto a causa della mancanza di crescita, e ora della già avviata recessione.

D’altronde, nessuna leva per il superamento della cosiddetta “crisi del debito” è stata azionata sul piano delle ridefinizione delle funzioni delle banche commerciali e delle banche d’affari, né sulla funzione di “lender of last resource” della Banca centrale (visto che quella “europea”, a differenza delle altre, finanzia le banche ma non finanzia gli Stati), né sul piano della regolamentazione dei mercati finanziari (negoziazioni Otc, vendite allo scoperto, hedge funds, Cds, etc.). Dunque ora è necessario intervenire per invertire il trend recessivo e stimolare la crescita. Dovrebbe esser chiaro che ciò non può consistere nel semplice girare uno o più interruttori, o nel liberalizzare le licenze per i taxisti e la vendita dei farmaci nei supermercati (forse sarebbe più importante rivedere l’operare della Commissione che controlla il prezzo dei farmaci!). Sono necessarie riforme che siano in grado di agire sui processi economici nel medio-lungo periodo. Uno dei campi dove tali riforme sono più urgenti è sicuramente, come già rullano i tamburi dei mass media e gli slogan del governo, quello del mercato del lavoro.

Bisogna tuttavia essere molto attenti per non commettere anche qui, come nella fase uno, degli errori tecnici. Perciò è necessario individuare con chiarezza gli obiettivi cui le riforme del mercato del lavoro devono tendere per stimolare la crescita economica. Tali obiettivi vanno inquadrati in due direzioni fondamentali: quella della ristrutturazione della base produttiva e quella della crescita della produttività. La prima richiede il perseguimento di strategie di politiche industriali ed agrarie che promuovano lo sviluppo di nuovi settori e che affrontino in maniera organica il problema delle aree di crisi. La seconda richiede una radicale virata in materia di processi di innovazione in tutti i suoi aspetti, tecnologici, organizzativi, gestionali, di processo e di prodotto.

L’obiettivo dominante, è quello della crescita della produttività, la quale solo in parte può considerarsi funzione dell’attività di “ricerca e sviluppo” e quindi degli investimenti di risorse finanziarie in essa profusi. All’origine dei processi innovativi vi è anche una serie di fattori che hanno a che fare con il livello di conoscenza diffusa nella società, con la rimozione degli ostacoli alla concorrenza nel mercato dei beni e dei servizi, con la qualità degli “skills” posseduti dalla forza lavoro, con l’intensità dei legami relazionali delle reti interattive di produttori e consumatori.

Non è possibile superare la presente crisi senza un’integrazione tra le politiche di sviluppo e le politiche del lavoro attraverso un insieme di misure che devono essere organicamente collegate tra loro come elementi complementari di una strategia unitaria. Tale strategia deve articolarsi in quattro direzioni: ristrutturazione produttiva, crescita della produttività, crescita della domanda interna, stabilità monetaria. Considerando queste direzioni sotto il profilo delle politiche del lavoro è possibile individuare cinque obiettivi coi quali il disegno delle riforme strutturali del mercato del lavoro deve confrontarsi e ai quali deve mirare.

Il primo obiettivo è quello del riequilibrio delle quote distributive. Il rafforzamento delle rendite (non soltanto finanziarie), l’aumento della quota dei profitti e la contrazione della quota dei salari sul Pil indeboliscono la componente interna della domanda aggregata. Spesso si cerca una compensazione nella crescita della domanda estera invocando un’ulteriore riduzione (o moderazione) salariale per far crescere la competitività; ma ciò ridurrebbe ancora la domanda interna, mentre la domanda estera non crescerebbe perché la competitività dipende essenzialmente dalla produttività. Il livello dei salari italiani è notoriamente a livelli inferiori a quelli dei paesi industrializzati. Pensare di ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto attraverso una riduzione del costo del lavoro per unità di lavoro anziché mediante incrementi di produttività è illusorio. Su scala macroeconomica occorre abbandonare un modello fondato sulla compressione della quota dei salari e inserire invece la questione distributiva in un modello di politiche integrate che favoriscano la riduzione delle rendite, la crescita della domanda interna e la crescita della produttività. Sul piano microeconomico occorre evitare differenziali nei prezzi dei fattori (cheap labour) tali da favorire tecniche a maggior intensità di lavoro e scoraggiare gli investimenti per l’innovazione.

Il secondo obiettivo consiste nella realizzazione di un sistema di flessibilità autentica, dove con questo termine si intende una flessibilità e una mobilità del lavoro finalizzate alla riduzione dei “costi di aggiustamento” per far fronte alle fluttuazioni della domanda e alle esigenze di riorganizzazione o di ristrutturazione produttiva e non una flessibilità spuria, sostitutiva della crescita della produttività e finalizzata esclusivamente alla utilizzazione di “cheap”, e, spesso, “unskilled labour”. Occorre frenare la diffusione di quello che l’Ilo chiama “vulnerable work” e sganciare la nozione di flessibilità da quella di precarietà. Ricondurre la diversificata gamma di flessibilità alla sua funzione specifica di sostegno alla riduzione dei costi di aggiustamento riducendo o cancellando gli elementi spuri e gli abusi in essa presenti richiede una profonda revisione istituzionale, e non è detto che la formula del cosiddetto “contratto unico” sia la soluzione migliore. Infatti, pur riducendo l’eccessiva segmentazione delle tipologie contrattuali, perché non mantenere (eliminando le possibilità di abusi) alcune figure che rispondono a precise esigenze aziendali? Inoltre, il troppo esteso periodo di prova che di fatto si configurerebbe lascerebbe di fatto intatte le caratteristiche di precarietà che si vorrebbero eliminare. Ancora, una struttura di tutele crescenti con l’anzianità darebbe troppo peso all’automatismo della “seniority” e penalizzerebbe i giovani. Infine, l’imprenditore razionale potrebbe essere indotto ad intensificare il turnover nell’area di bassa anzianità per evitare il consolidarsi di “tutele crescenti”.

Il terzo obiettivo è strettamente legato al secondo e consiste nella predisposizione di un efficiente sistema di sostegno dei redditi che accompagni i processi di riallocazione della forza lavoro coinvolta nei processi di riorganizzazione e di ristrutturazione produttiva. È necessario che tale sistema non svolga soltanto la funzione di alleviare la carenza di reddito dei lavoratori e quella, importantissima, di stabilizzazione anticiclica della domanda; ma anche, e soprattutto, quella di favorire e supportare la ristrutturazione e l’innovazione del sistema produttivo garantendo da un lato che queste abbiano luogo e dall’altro che il sistema di ammortizzatori sociali ad esse connesso sia integrato con tutte le politiche di attivazione del lavoro (dall’orientamento al “matching”, dalla consulenza alla formazione) evitando di incidere negativamente sull’offerta di lavoro. Torna utile a questo proposito richiamare le varie esperienze di “flexicurity” dei paesi nordici, precisando però che esse non possono essere riprodotte tali e quali nel nostro contesto istituzionale, ma che appropriate formulazioni devono essere elaborate per rendere operanti quei principi in un contesto istituzionale diverso, anch’esso da innovare coerentemente. In particolare, ciò richiede una profonda revisione dell’intero sistema degli ammortizzatori sociali e dei Servizi per l’Impiego; ma val la pena esplorare anche l’ipotesi di una trasformazione più radicale mediante l’introduzione del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, cui l’attuale ministra del lavoro sembra aver fatto una qualche apertura.

Il quarto obiettivo consiste nel trasformare l’attuale sistema formativo in un sistema capace di erogare la quantità e la qualità di formazione “appropriate”. L’Italia si trova ad avere contemporaneamente una bassa percentuale di addetti in possesso di titoli di studio elevati e un’alta percentuale di soggetti in possesso di titoli di studio elevati privi di occupazione. Ho già in varie sedi messo in evidenza il rischio di cadere nella “trappola della formazione”: se il sistema formativo si limita a fornire risposte alla corrente domanda di formazione proveniente dal sistema produttivo, esso stabilizza una situazione di arretratezza laddove la frontiera tecnologica su cui opera il sistema richiede soltanto basse professionalità; al contrario, se il sistema formativo produce competenze professionali superiori a quelle che il sistema produttivo è in grado di assorbire, si genera o un fenomeno di “brain drain” o una sottoutilizzazione delle professionalità costruite. Evitare questa trappola è possibile programmando congiuntamente politiche di formazione e politiche di innovazione tecnologica, organizzativa, gestionale che aumentino la capacità di assorbimento di professionalità elevate da parte delle imprese. La transizione tra scuola e lavoro va favorita con strumenti innovativi, il sistema di formazione professionale, che al giorno d’oggi vive spesso solo in funzione del mantenimento del personale impegnato nell’attività formativa, va radicalmente ristrutturato; l’estensione della “formazione permanente”, ossia l’inserimento di attività formativa lungo tutto l’arco della vita di lavoro nelle imprese, deve divenire un obiettivo fondamentale. Va infine ricordato che il fenomeno del “mismatch” non riguarda soltanto le figure professionali più elevate, ma anche i mestieri e le professioni di più bassa qualifica, che tuttavia richiedono oggi un buon possesso di conoscenze tecniche; è il caso, per esempio, di falegnami, elettrotecnici, sarti, fabbri, tessitori, installatori, attrezzisti di macchine utensili, pasticceri, e così via.

Il quinto obiettivo consiste nel rafforzamento di un sistema di partenariato socioeconomico effettivamente operante. Questa dimensione viene spesso sottovalutata, ma le nuove forme di “governance reticolare”, o interattiva, non possono ormai prescindere dal coinvolgimento e dalla partecipazione dei diversi soggetti economici e sociali, e a maggior ragione del sindacato, su scala nazionale come pure su scala locale, nella formazione delle decisioni di politica economica. I vecchi concetti di “dialogo sociale” e di “concertazione” vanno rivisitati alla luce della moderna teoria della “governance” e alla luce di un possibile nuovo “patto sociale”che impegni reciprocamente governo, imprenditori e lavoratori in una serie di scelte condivise per lo sviluppo. In questa prospettiva vanno riconsiderati i problemi della partecipazione dei lavoratori, della loro rappresentanza, delle relazioni industriali.

Un disegno di profonde riforme strutturali del mercato del lavoro va quindi elaborato con urgenza, ed esso va valutato raffrontandolo con questi obiettivi, e soltanto se rivelerà coerenza con essi potrà essere ritenuto congruo. Provvedimenti inidonei a raggiungere questi obiettivi, o irrilevanti rispetto ad essi (come, per esempio, la ventilata abolizione dell’articolo 18), o addirittura in contrasto con essi, non sarebbero utili per superare la crisi e riattivare nel nostro sistema economico un processo di crescita della produttività e del reddito. Non bisogna permettere che adducendo esigenze urgenti di stimolare la crescita, vengano acriticamente contrabbandati e accolti provvedimenti che, nulla avendo a che fare con questa, siano soltanto espressione di vecchie o nuove ideologie, appoggiati a pseudo argomentazioni di analisi economica tanto superficiali quanto spurie. D’altronde, anche le raccomandazioni dell’Unione Europea (non della Banca Centrale) vanno nelle direzioni su esposte (cfr. Europe 2020 Strategy, Guidelines for the employment).

Una versione più lunga è pubblicata su www.ildiariodellavoro.it

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