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Governo del fare in fuga dal nucleare
Temendo il referendum, il nucleare, primo programma del governo Berlusconi, è stato accantonato. S’illudono di riprendere più tardi il progetto, ma è un’idea senza senso.
Alla fuga nucleare giapponese è seguita la nuova, e speriamo definitiva, fuga italiana dal nucleare. Ottimo. Plaudiamo a questa scelta e – tralasciando i tatticismi del governo che vanno oltre la questione energetica – proviamo a ragionare sui costi e i benefici di questa marcia indietro. All’energia nucleare si può essere istintivamente favorevoli o contrari. Ma ai connessi problemi della sicurezza deve essere data una risposta oggettiva ex ante. Proviamo con quattro considerazioni.
I rischi di breve periodo. Tutti i rettori nucleari per la produzione di energia a uso civile commerciale, attualmente in funzione nel mondo, sono originariamente derivati da riconversioni delle tecnologie di motori a propulsione nucleare sviluppati in ambito militare, che, per ovvie ragioni, non ponevano al centro della progettazione come criterio ingegneristico dominante quello della sicurezza civile. Perciò, anche i così detti reattori nucleari di terza generazione, classificati in base al tipo di combustibile utilizzato, al sistema di raffreddamento e al tipo di moderatore, restano soluzioni deboli in tema di sicurezza.
I rischi di lungo periodo. Il problema dello smaltimento delle scorie radioattive è un tema irrisolto. Nel nostro paese ancora oggi deve essere individuato il sito unico che possa ospitare per un considerevole numero di anni (anche migliaia) le scorie delle combustioni nucleari (ma, anche quelle delle quotidiane attività di ospedali e fabbriche). Aggiungendo che è possibile stimare esclusivamente in senso probabilistico la capacità di questi luoghi, e delle rispettive tecnologie di gestione e stoccaggio, di garantire la difesa dei rifiuti radioattivi al trascorrere del tempo, i rischi secolari connessi al nucleare si accrescono vertiginosamente, pesando non solo su di noi ma anche sulle future generazioni.
La probabilità di disastri nucleari. A livello ingegneristico la stima della probabilità di subire un danno strutturale, e irreversibile, è uno dei criteri cardine per valutare i costi e i benefici connessi allo sviluppo e impiego di un’innovazione. Se consideriamo che oggi operano a livello mondiale 442 reattori, di cui circa i due terzi con un’età compresa tra i 20 e i 40 anni, e perciò tecnologicamente superati e intrinsecamente pericolosi; e che durante gli ultimi 35 anni sono stati documentati 4 disastri nucleari di livello compreso tra 5 e 7 [Cernobyl (livello 7), Three Mile Island (livello 5), Tokaimura (livello 5), Fukushima (livello 7) attualmente in corso, oltre ai continui e molto frequenti eventi di livello 0 e 1, sia in occidente che nel resto del mondo, registrati sul sito dell'Iaea, e senza conteggiare gli eventi drammatici dei decenni precedenti come Kyshtym (Urss, 1977) (livello 6), Sellafield (1977) GB (livello 5)], si ottiene una probabilità media del verificarsi di un disastro nucleare in ambito civile di circa l’1%. Dal punto di vista ingegneristico, tralasciando gli incidenti nucleari di gravità inferiore, la probabilità risulta elevatissima e ci deve condurre in maniera pressante a riconsiderare i costi economici, sociali e ambientali connessi ai progetti nucleari.
Infine, anche i più convinti nuclearisti si sono oggi fatti persuasi che il minore costo connesso alla produzione di energia nucleare a fini civili è una chimera. E che il criterio della profittabilità entra in netto contrasto con quello relativo alla vita tecnica dei reattori. Ad esempio, quello di Fukushima, affidato per la gestione con criteri discutibili a una impresa privata, aveva superato nel 2001 i 30 anni di vita, ma era stato autorizzato a proseguire l’attività per almeno altri 10 anni in quanto la redditività del reattore nucleare, di quella generazione, si manifesta nel periodo successivo a quelli di recupero del costo di impianto, appunto i 30 anni trascorsi tra il 1971 (anno di inizio produzione) e il 2001. Risultato: la profittabilità del nucleare si ottiene oltre la vita tecnica dell’impianto, a fronte di crescenti rischi di disastro nucleare. Se a questo si aggiunge che il costo economico e ambientale dei residui nucleari, e quello di smantellamento dell’impianto medesimo superano largamente il costo originario di costruzione dello stesso, ne risulta la vacuità dell’affermazione di una energia nucleare a buon mercato.
Il governo italiano ha giustificato il congelamento di tutti i progetti nucleari “al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche”. I dati a disposizione sembrano però già oggi tratteggiare una conclusione: i costi e i rischi connessi al nucleare sono troppo elevati per considerare l’energia nucleare un’alternativa credibile tra le diverse fonti di energia.
Resta un’incognita. Quale sarà la strategia italiana per la produzione d’energia del prossimo decennio? In che direzione dovrà mutare il mix energetico nazionale per soddisfare la domanda di energia e quella della tutela della salute e dell’ambiente? Le energie rinnovabili (eolico, fotovoltaico, biomasse) saranno considerate dal governo un’alternativa da sostenere? Il nostro paese attende da oltre venti anni un nuovo Piano energetico nazionale. L’Unione europea guarda alle fonti di energia rinnovabili con crescente interesse, anche per le opportunità di crescita e di nuova occupazione che rappresentano. Che sia giunto il loro momento anche nel nostro paese?
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