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Il business e il busillis del permesso a punti
Mentre alcune scuole private partono a caccia dei nuovi allievi di italiano "lingua 2", lo stato non fa niente per permettere agli stranieri di conquistarsi i preziosi punti
Proposte indecenti. Qualche giorno fa un’associazione di volontariato si è vista recapitare la cortese lettera di una scuola privata che informa che dal prossimo anno attiverà corsi di italiano lingua 2 per stranieri. Pubblicità? Non proprio. La scuola chiede all’associazione, che è impegnata nel sostegno ai migranti, di procurarle degli allievi: e per ogni iscritto procurato promette un utile, pari al 20% della tariffa di iscrizione. C’è dunque chi si sta organizzando per poter trarre dei vantaggi dall’”accordo di integrazione”che, dal prossimo gennaio, dovrà essere stipulato da ogni migrante che chieda per la prima volta il permesso di soggiorno. E a farlo, c’è da scommetterci, non sarà solo qualche scuola privata. Di varchi per apprestare business di varia natura ce ne sono in effetti parecchi in quel “permesso a punti” che impicca la conferma del permesso di soggiorno alla dimostrazione, entro due anni, di conoscere la nostra Costituzione e di aver superato una prova formale di apprendimento della lingua italiana. Il patto che si richiede – patto pesante perché ne va della possibilità di restare in Italia - è di quelli che un tempo si chiamavano leonini. Da un lato uno stato che impone degli obblighi e ne elenca puntigliosamente tipi e scadenze , ma che da parte sua invece non si obbliga affatto a renderne davvero possibile l’adempimento. Dall’altro il singolo migrante – tutti, dai 16 ai 65 anni – che , in assenza di precisi impegni dello stato, non potrà neppure contestarne il non adempimento e basare su questo la giustificazione di un eventuale non raggiungimento entro i tempi prescritti di ciò che ha sottoscritto. Nel testo del Regolamento varato recentemente dal consiglio dei ministri ( che attende, per diventare attuativo, il parere della Conferenza stato-regioni e di altri organi ) non sta scritto nero su bianco, e neppure in grigio, che verrà assicurata un’offerta formativa pari alla domanda, accessibile per localizzazione e per tempi di funzionamento, e magari anche gratuita. C’è solo il riferimento a possibili iniziative “nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente” in raccordo con le regioni e gli enti locali. Che non è detto abbiano risorse economiche e organizzative sufficienti, o che vogliano usarle per questo, o che non abbiano motivi di contrarietà. Nel merito, e per il fatto di vedersi continuamente scaricare addosso oneri e responsabilità mentre gli vengono tagliate a tutto spiano le risorse per i servizi sociali locali.
Il solo obbligo che lo stato si assume in proprio riguarda la cosiddetta formazione civica, con una scelta di modi e tempi che obbedisce più alla pulsione muscolare per cui nei migranti devono essere inculcati immediatamente il rispetto e l’obbedienza che a una sensata e generosa interpretazione di un’educazione alla cittadinanza che deve misurarsi con tanti fattori avversi: innanzitutto il diniego a riconoscere come cittadini perfino i figli nati qui da genitori stranieri. A gestirla saranno soggetti impropri, gli sportelli unici per l’immigrazione inopinatamente trasformati in agenzie formative; i cosidetti corsi saranno da un minimo di 5 a un massimo di 10 ore; i tempi, entro un mese dalla data del permesso di soggiorno, quindi quando è presumibile che le competenze linguistiche siano ancora minime, e dunque massime le difficoltà di comunicazione su argomenti tutt’altro che banali, la Costituzione, il sistema fiscale, l’istruzione, la sanità. E inoltre chi e con quali criteri valuterà se il risultato di questa “formazione” sarà stato sufficiente, o buono, o ottimo, e dunque se , secondo il prontuario governativo, varrà 6 punti piuttosto che 9 o 12? Non occorre essere malpensanti per prevedere che, se ne deriverà un qualche apprendimento , riguarderà sopratutto quel tratto caratterizzante della nostra “vita civile” che consiste nella immancabile distanza tra norme e fatti, nell’impatto diretto con la cultura sociale dell’ arrangiarsi, nell’obbligo di conoscere e magari dare soldi a chi può e ha l’interesse di procurare una soluzione. Tutti apprendimenti, peraltro, che costituiscono il bagaglio d’ingresso dei tanti migranti alle prese con i decreti sui flussi, le ipocrisie della regolarizzazione, la pesantezza dei nostri apparati burocratici.
Ma è soprattutto sulla conoscenza certificata dell’italiano che la genericità di impegni appare intenzionalmente colpevole, e foriera di affari più o meno legali sulle spalle dei migranti. Quanti saranno quelli che, nei due anni sempre complicati del primo inserimento, con lavori e residenze lontane dai contesti urbani, gli orari difficili delle badanti, della stagionalità in agricoltura, del facchinaggio e quant’altro, non avranno tempo, mezzi di trasporto, testa e concentrazione per frequentare regolarmente i corsi disponibili e per sostenere le prove di italiano A1, A2, B1 del framework europeo: che valgono 10, 14, 20, 24, 28 punti dei 30 che bisogna accumulare nel biennio? In un paese dove possono essere venduti e comprati diplomi, lauree, specializzazioni e perfino contratti di lavoro è improbabile che possano mancare i venditori di qualcosa che può valere molto di più. E quindi anche i compratori. E, come sempre, gli intermediari.
Il regolamento, tuttavia, fa riferimento anche alle scuole pubbliche per adulti che, con le scuole del privato sociale sono state finora la più importante opportunità di corsi gratuiti di italiano (circa 150.000 iscritti l’ anno), anche perché con le loro 500 sedi sono molto diffuse nel territorio e molto più visibili e accessibili di altre agenzie formative. Peccato che dal prossimo anno, in base a un regolamento anch’esso in via di attuazione , queste scuole potranno attivare solo corsi finalizzati al conseguimento di titoli di studio formali – dalla licenza elementare e media ai diplomi – e non dovranno accettare iscritti già in possesso di quei titoli. Mentre sono tantissimi, tra gli stranieri, probabilmente più di un terzo, quelli che hanno diplomi e lauree, sebbene raramente riconosciuti ai fini lavorativi. Strada sbarrata, dunque (ma Gelmini l’ha spiegato a Maroni?) , per quei 4, 5, 10 punti previsti dal prontuario approvato dal consiglio dei ministri. A meno che qualcuno, magari nell’opposizione, finalmente se ne accorga e riesca a riaprire i tavoli del negoziato. Già oggi, comunque, a regolamento non ancora attuato, in molte scuole pubbliche per adulti stanno diminuendo le iscrizioni degli stranieri ai corsi brevi di italiano lingua 2 che in più casi negli ultimi anni si sono conclusi con prove e certificazioni formali dello stesso tipo richiesto dal permesso a punti. Nella scuola si sa che, causa tagli, non verrà assegnato l’organico necessario, e d’altra parte non sono più i tempi in cui si sapevano costruire dal basso le alleanze che servono. Quanto alle scuole del privato sociale, che pure in parecchie grandi città intercettano parti consistenti della domanda e a cui non mancano gli insegnanti volontari, non dispongono però né di tutti gli spazi che occorrerebbero per attivare le aule, né delle risorse necessarie a sostenere i costi delle certificazioni formali (fino a 40 euro a testa) richiesti dalle università per stranieri di Siena e Perugia che predispongono i testi delle prove secondo il framework europeo, fanno la correzione e la valutazione, rilasciano i titoli. Senza contare che l’italiano lingua 2 per il permesso a punti, per quanto decisivo, non potrà diventare la priorità unica e assoluta. Sono tantissimi gli immigrati stranieri da tempo in Italia – quindi non interessati dal nuovo dispositivo del permesso a punti - che hanno anche loro bisogno di migliorare le loro competenze linguistiche e che non possono essere ricacciati nelle scuole private a pagamento. Nessuno sa, del resto, quanti saranno i migranti che ricadranno nella nuova normativa. Non ci sono previsioni né simulazioni nel regolamento sull’accordo di integrazione, altra prova lampante dell’approssimazione e della miseria politica del nuovo dispositivo.
Ma non basta. Mentre, sul versante politico, non si va al momento oltre il gioco delle dichiarazioni contrapposte tra un centrosinistra che, quando se ne ricorda, stigmatizza come unicamente vessatorio il permesso a punti e un centrodestra che – parole di Sacconi e Maroni – gli attribuisce il significato di una svolta decisiva, e di alta qualità morale, nelle politiche per l’immigrazione, pochi sembrano attenti a quanto disposto nel comma 7, articolo 2 del regolamento. “Non si fa luogo alla stipula dell’accordo e, se stipulato, questo si intende risolto, qualora lo straniero sia affetto da patologie e o da disabilità tali da limitarne gravemente l’autosufficienza o da determinare gravi difficoltà di apprendimento linguistico e culturale”. Fuori i malati, dunque, i disabili, e quelli che hanno problemi di apprendimento. Chi discriminerà tra i sommersi e i salvati ? Chi attesterà, e in base a quali criteri, l’impossibilità di imparare? Quanto manca ai tempi peggiori di Ellis Island? E’ anche così che va in pezzi la civiltà di un paese.
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