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ll blocco sociale della depressione
I tagli al pubblico sono la nuova moda europea. I liberali olandesi di Mark Rutte vincono le elezioni promettendo tagli di 20 miliardi di euro l'anno. I conservatori inglesi di David Cameron le hanno appena vinte con lo stesso programma. In Germania, Angela Merkel annuncia 85 miliardi di tagli al bilancio pubblico. In Spagna, il socialista Zapatero riduce il deficit di 15 miliardi, lo stesso è già stato fatto in Grecia e Portogallo. Cose da far apparire moderata la manovra da 25 miliardi di Giulio Tremonti. E così, mentre gli ultrà del liberismo chiedono di più dalle colonne del Corriere della sera, è in arrivo la riforma della Costituzione che cancellerebbe regole e vincoli per le imprese.
Questa svolta della politica europea solleva due domande. La prima è economica: se si taglia la spesa pubblica (riducendo così i consumi), come si potrà uscire dalla recessione? L'Europa produce sempre meno, gli investimenti sono sottozero, le esportazioni possono ridare un po' di crescita solo alla Germania. In Italia il Pil è caduto del 5% nel 2009 e la manovra lo farà cadere ancora nel 2010. L'aumento dei deficit dello stato è un effetto e non una causa della crisi: la spesa pubblica è cresciuta dal 2008 per tappare le falle aperte dalla crisi finanziaria (con i salvataggi bancari, tranne che Italia) e dalla recessione (disoccupazione, povertà), mentre crollavano le entrate fiscali (per la caduta di prodotto e redditi e, in Italia e Grecia, per l'evasione).
Che sul piano economico questa sia una politica folle ce l'ha dovuto dire il ministro del tesoro Usa Timothy Geithner, che ha chiesto all'Europa «una maggiore crescita della domanda interna». Ma al G20 in Corea dei giorni scorsi l'Europa ha voluto disobbedire (per una volta) agli Stati uniti, e ha spinto per una dichiarazione finale insensata, che tiene dentro allo stesso tempo raccomandazioni di politiche restrittive ed espansive.
La svolta - simbolica, ideologica e politica - è che ora la "colpa" della crisi è stata trasferita agli eccessi della spesa pubblica. La speculazione delle banche d'affari non è più sotto accusa, i mercati finanziari sono tornati efficienti, razionali e lungimiranti: non resta che sacrificare l'economia reale sull'altare della "fiducia dei mercati". Dobbiamo solo aspettare le nuove mosse della "strategia di shock" che approfitta dell'emergenza per imporre un capitalismo selvaggio, e prepararci a subirle. Dopo la prova di forza sulla Grecia, la politica è ammutolita. Nello scontro tra finanza ed Europa, il continente ha gettato la spugna al primo round.
La seconda domanda è politica: come è possibile che politiche di questo tipo in Europa facciano vincere le elezioni? Saltiamo l'antefatto, la lunga storia di governi di destra e centrosinistra che hanno praticato le stesse politiche di tagli al pubblico e privatizzazioni. C'è sicuramente uno sfondamento "ideologico": con redditi in calo, l'illusione è che pagare meno tasse eviti il calo del livello di vita. Tantopiù in Italia, dove le tasse manterrebbero "Roma ladrona" e i "fannulloni" dell'impiego pubblico.
Ma ricordiamoci le condizioni materiali. In buona parte dell'Europa i redditi reali e i consumi sono fermi ai livelli di un decennio fa. In Italia il potere d'acquisto procapite è sceso sotto il livello del 2000. Ma questi valori medi nascondono la storia più importante, la crescita delle disuguaglianze: in Europa e negli Stati uniti è il 20% più ricco che ha assorbito tutta la crescita del decennio. Quattro europei su cinque sono ora più poveri, ma nessuna forza politica ha proposto una risposta al declino capace di parlare ai "perdenti", di costruirne l'alleanza e praticare alternative. Così, l'ideologia delle opportunità individuali e il populismo xenofobo delle guerre tra poveri ha convinto moltissimi tra gli impoveriti. In Italia, il richiamo dell' ognuno per sé ha costruito un blocco sociale quasi imbattibile, fatto dai ricchi, dai lavoratori autonomi, dalle classi popolari del Nord conquistate dalla retorica leghista e da buona parte del Sud, dove è cresciuta soltanto l'economia illegale e il controllo dei poteri mafiosi. Le politiche del governo hanno costruito sistematicamente questo blocco sociale attraverso condoni di ogni tipo - fiscali, immobiliari, sui capitali esportati - cancellazione di imposte sui patrimoni (successioni e Ici), tolleranza dell'evasione, eliminazione di regole. È il consolidamento di questo blocco sociale che in Europa spinge a destra la politica e che in Italia si presenta - con forti particolarità - come il risultato più importante del berlusconismo.
Ma tutto questo per fare cosa? Che cosa può volere un blocco sociale fondato sull'economia del privilegio e dell'abuso? È semplice: lo sanno tutti che i ricchi accumulano ricchezze.
Vediamo qualche numero. In Italia ci sono quasi 600 mila persone con un patrimonio finanziario (immobili esclusi) di oltre 500 mila euro a testa; la fonte è l'Associazione italiana di private banking e ne parla Guido Ortona in un articolo pubblicato ieri su old.sbilanciamoci.info. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è la più alta d'Europa. A mostrarlo è il Rapporto annuale Istat (a pag.177), spiegando che in Italia è pari a circa due volte il Pil nella media dell'ultimo decennio, quasi il doppio della Germania e della Francia. Pur con una Borsa asfittica, dopo il 2001 l'Italia batte sistematicamente il Regno unito con la sua City. A questi dati si dovrebbero aggiungere i valori in costante crescita dei patrimoni immobiliari italiani.
In Italia, più che in altri paesi europei, l'economia e la politica hanno alimentato la ricchezza di un numero ristretto di italiani. Per proteggere i loro privilegi, la manovra di Tremonti prepara una recessione senza fine. Ma, dopo la grande crisi, è tutta l'Europa che sta votando per la grande depressione. Potremmo invece votare per una grande redistribuzione. C'è una petizione su sbilanciamoci.org che chiede di tutelare i redditi e tassare le ricchezze, e progettare un'altra uscita dalla crisi.