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Il ruolo della Bce e la crisi di maggio

08/06/2010

Il potere assoluto della Banca centrale europea ha creato i presupposti dell'odierna crisi del debito, e allo stesso tempo ne ostacola la possibile soluzione

In un articolo precedente ho indicato alcune “zone opache” della teoria economica a monte della crisi finanziaria dell’ultimo biennio. Esistono altre opacità concettuali, a valle delle prime, che incidono sugli assetti e sulle azioni dei policy maker europei. Esse finiscono per essere funzionali alle ambiguità delle quali questi attori sono inclini a servirsi per fingere di conciliare filosofie e interessi non conciliabili. La più recente crisi nella crisi che ha colpito l’Europa (la crisi di maggio) si presta a chiarire alcune di queste opacità e anche a far emergere qualche elemento grottesco.

Le agenzie di rating, ad esempio, sembrano aver avuto un qualche ruolo perverso nella speculazione contro l’euro, di cui il declassamento dei titoli del debito greco non è stato che il preambolo e il pretesto (si parla ora di una autorità europea di sorveglianza sulle agenzie). Prescindendo da eventuali illeciti, sono forse in gioco anche altre responsabilità. Le agenzie hanno potuto innescare le manovre speculative nella misura in cui vengono considerate credibili. Nate per valutare aziende, esse valutano oggi le performance dei sistemi economici. Ma si tratta del punto di arrivo di una metamorfosi, iniziata con il valutare economie marginali, con una successiva estensione ai paesi economicamente avanzati, favorita dalle istituzioni finanziarie internazionali e dalle banche centrali. Alle agenzie, che sono aziende profit making, è stato un dito ed esse si sono prese un braccio, ma con il consenso generale. Eppure avrebbe dovuto essere evidente fin dall’inizio che non avesse senso una credibilità delle agenzie in un campo in cui si cimentano, con pluralità di posizioni diversificate e spesso contrapposte, la comunità degli economisti accademici e i migliori uffici studi.

 

Non è l’unico aspetto grottesco emerso nelle vicende di maggio. Le agenzie, infatti, avevano una qualche ragione nel valutare il debito dei paesi europei come se si fosse trattato di debiti privati. Con la costituzione della Banca Centrale Europea (Bce) e dell’euro, infatti, l’accensione e l’accumulazione di debiti da parte degli stati membri hanno perduto molte delle caratteristiche che li rendevano qualcosa di profondamente diverso dai debiti privati. Oggi l’indebitamento degli stati assomiglia a quello degli enti locali, senza tuttavia che vi sia come contrappunto un autonomo bilancio nazionale, la capacità dello stato (centrale) di disciplinare efficacemente i comportamenti locali e/o di operare compensativamente, la possibilità da parte dello stato di usare la leva della moral suasion nei confronti della sua banca centrale ovvero di intervenire normativamente sugli obblighi di questa nei confronti dell’autorità statale. Risultato: l’Eurozona è l’unico sistema economico in cui alla moneta comune non fa da contrappunto un bilancio e una autorità federale. Tale peculiarità è stata aggravata dalla totale indipendenza politica della Bce e dalle scelte di forma (una sorta di costituzionalizzazione) e di contenuto (adozione di target fissi sia per i bilanci sia per la creazione di base monetaria) in merito alle politiche fiscali (patto di stabilità) e monetarie (il primo “pilastro” al quale la Bce afferma di attenersi fin dall’inizio del suo operare, corrispondente ad un aumento della base monetaria M3 del 4,5% annuo, non è stato mai cambiato nel decennio, almeno formalmente). Ad una tale rigidità senza pari, vero sogno monetarista fatto realtà, ai associa il fatto a questo punto non sorprendente che l’Europa è l’unico polo competitivo mondiale a non disporre di un’autorità, di rango almeno corrispondente a quello della sua banca centrale, capace di gestire politiche industriali e commerciali –più in generale politiche di parte reale- dialogando con le autorità monetarie (piuttosto che obbedendo ai suoi precetti).

 

I risultati sono abbastanza evidenti, non solo in termini di perdita di competitività relativa nel corso di un decennio abbondante. Se infatti due terzi dei paesi membri trovano difficoltà a rispettare il patto di stabilità, ciò avrebbe dovuto far squillare qualche allarme, non necessariamente per allentare i vincoli, bensì per capire che è l’architettura complessiva cui mancano alcune chiavi di volta. La crisi di maggio ha invece prodotto il peggiore dei risultati possibili: nessuna modifica di architettura, creazione di una situazione di fatto che obbligava gli stati membri a politiche fiscali restrittive senza che la Bce dovesse usare la usuale arma dei pericoli di inflazione (che in questo caso non sarebbero stati credibili, data la congiuntura), ennesimo rinvio di politiche per lo sviluppo, delegate ancora una volta a generiche ed indirette “riforme strutturali”, cioè a politiche da oltre un ventennio prive di successo e tutte miranti alla flessibilizzazione del lavoro e alla diminuzione degli associati costi.

 

Confusione e ambiguità, oggi evidenti, sono cominciate con i numeri cabalistici di una decina di anni fa: massimo deficit annuo di bilancio il 3%, “pilastro monetario” al 4,5%. Per quest’ultimo un principio di spiegazione è stato dato: una previsione di crescita intorno al 2,5-3%, un tasso massimo di inflazione considerata accettabile del 2%, stime econometriche asserite essere robuste e stabili che correlano il tasso di inflazione nel lungo periodo alle variazioni di M3 diminuite del tasso di crescita dei flussi reali. E’ buffo però che, nel decennio di attività della Bce, M3 sia aumentata ben al di sopra (intorno al 7%) di quanto annunciato (non ostante il tasso di crescita reale sia stato più basso del previsto), il tasso di inflazione sia rimasto stabile intorno al 2,1% e che tutto questo venga presentato come un successo culturale oltre che politico della Bce. (La lettura diretta dei Bollettini Bce fa pensare più ad una onesta e artigianale navigazione a vista, mentre le argomentazioni di sapore scientifico, ad una attenta lettura, fanno pensare più alla componente retorica della teoria economica messa in luce da Deirdre McCloskey, quando non addirittura alle “derivazioni” di Pareto, che alle proposizioni falsificabili di Popper). Ma perché il deficit, che tutti sembrano considerare un male, è stato fissato al 3 e non allo 0%? Per un compromesso politico ovvero per un dubbio concettuale, non ostante tutto mai sopito, che un po’ di deficit pubblico (come del resto un po’ di inflazione) possa far bene allo sviluppo? Ho ricordato, in questa rivista, come le operazioni sul mercato aperto della banca centrale non costituiscano una spiegazione accettabile della creazione di moneta nel lungo periodo in una economia che cresce (come nascono i titoli? Quando nascono non sottraggono forse moneta?). E allora non è che la previsione di un deficit pubblico serva per consentire alla Bce di monetizzare a sua discrezione i deficit pubblici, sia pure indirettamente? (L’art.101 del Trattato, assurdamente, erige un bastione difensivo per la Bce nei confronti di pressioni politiche in tal senso, stabilendo un divieto per la Bce alla diretta sottoscrizione dei titoli del debito dei paesi membri; quando vuole essa può aggirare il vincolo favorendo variamente l’acquisto dei titoli stessi da parte delle istituzioni bancarie, con corrispondente creazione di liquidità).

 

Per disinnescare la recente manovra speculativa contro l’euro sarebbe probabilmente bastato un messaggio forte della Bce: l’annuncio che avrebbe comprato sempre, quali che fossero le vendite. Ciò evidentemente nell’ipotesi che l’entità delle riserve, proprie e/o potenziate da interventi internazionali, fosse sufficiente. La Bce ha invece costretto i Paesi membri a trovare un difficile accordo fiscale, stanziando una disponibilità a comprare i titoli dei Paesi considerati a rischio. Ad accordo strappato, la Bce è andata avanti –sembra- senza bisogno al momento di attivare gli impegni di bilancio dei paesi membri. Ciò induce ad ipotizzare che vi fosse altro in gioco: indurre i paesi a cambiare priorità, ponendo i “risanamenti dei bilanci” al primo posto.

 

La linea guida così affermatasi -risanamento prima, sviluppo dopo- ha un qualche senso alla luce di segni palesi di una domanda complessiva insufficiente, indotta dall’ impoverimento dei ceti medio bassi e alle preoccupazioni delle famiglie? Per chiarire questo punto bisogna riandare a un interrogativo di fondo: il disavanzo pubblico può indurre risposte produttive? Credo si possa dare una risposta affermativa, ma solo a patto di riuscire ad agire sugli investimenti, fornendo segnali affidabili sullo sviluppo e la sua continuità. Si pensi a questo esempio limite. Si immagini di stipulare contratti pluriennali con pool di imprese in cui siano specificati tempi di consegna, tempi di pagamento, eventuali meccanismi di indicizzazione ben studiati. In tali circostanze le imprese coinvolte non avrebbero nessuna remora ad effettuare gli investimenti che servono per far fronte agli impegni contrattuali; e sarebbero tali investimenti ad indurre sia maggiore domanda che la maggiore capacità necessaria ad alimentarla (sia pure superando non banali problemi di coordinamento intertemporale). A tali imprese non interesserebbe comunque se i soldi che ricevono provengono da debito, da moneta stampata per l’occasione o dalla tassazione.

 

L’esempio, che potrebbe giustamente sollevare perplessità dal punto di vista delle regole concorrenziali, serve solo ad indicare quanto il problema sia quello di fornire al mercato segnali affidabili che giustifichino il rischio di avviarsi in una sequenza virtuosa di investimenti produttivi. Se un segnale del genere potesse essere inviato al mercato, la crescita riprenderebbe e il peso relativo di deficit e debito potrebbero diminuire. L’esempio chiarisce tuttavia anche che non dovrebbe trattarsi del classico deficit spending keynesiano, anticiclico, bensì di una politica fiscale legata a programmi stabili e di lunga durata, gli unici in grado di mettere in moto sequenze di investimenti reiterati nel tempo (una domanda che va e viene non darebbe abbastanza affidamento).

 

D’altra parte va preso atto seriamente che i debiti pubblici (stock e flussi) domestici dei paesi dell’euro hanno acquisito una natura simile a quella dei debiti dei privati. Le vicende politiche della crisi di maggio hanno ben chiarito questo punto, con stravaganti assonanze tra il punto di vista tedesco e gli atteggiamenti leghisti. Sicché mi sembra possibile asserire con tutta tranquillità che il problema della disciplina dei debiti sia oggi in Europa un problema esclusivamente distributivo; e come tale – aggiungo - conflittuale e scottante. Esso deve essere risolto, ma non va confuso con la diversa questione costituita dalla possibilità di usare politiche di bilancio e deficit, ovviamente solo a livello federale, per promuovere ripresa e sviluppo. Anzi, ripresa e sviluppo sono una condizione per risolverlo alleggerendo le connesse tensioni. La strategia corretta è dunque quella della costruzione graduale di un bilancio federale di dimensioni rilevanti, parzialmente affrancato dalla contribuzione degli stati membri ma capace di crescere e di essere gestito, con le necessarie cautele, facendo ricorso a deficit collegati a programmi funzionali alla accelerazione della crescita e alla promozione di innovazioni, da associare per un verso ad una progressiva riduzione (fino al pareggio) dei deficit degli stati membri e, per l’altro, ad un bilanciamento dell’attuale egemonia assoluta della Banca centrale, analogamente a quanto avviene sull’altra sponda dell’ Atlantico del Nord.

 

 

 

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