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Risparmiare energia, gli incentivi possibili

31/01/2010

Efficienza energetica come percorso virtuoso verso gli obiettivi climatici 2020. Ma in Italia come altrove occorrono stimoli pubblici perché funzioni

Questo articolo costituisce la seconda parte di quello apparso nella newsletter n.63 di Sbilanciamoci.

Le misure di efficienza energetica sono convenienti per la collettività. Ma ci sono vari tipi di barriere che impediscono l’accelerazione e il pieno dispiegamento delle decisioni d’investimento nelle misure di efficienza energetica. La barriera principale è data dal fatto che, nonostante la convenienza economica intrinseca delle misure di efficienza, anche gli strumenti di accelerazione degli interventi costano. In questa fase di attuazione di obiettivi energetici e climatici per il 2020, non ci si può esimere dal fare il confronto fra gli oneri dei diversi sistemi di incentivazione nel settore energetico. In attesa che un ente indipendente faccia un confronto completo, abbiamo effettuato un confronto fra il principale meccanismo di incentivazione dell’efficienza energetica, quello dei certificati bianchi, e i principali strumenti di incentivazione delle fonti rinnovabili, cioè i certificati verdi per i grandi impianti rinnovabili e il conto energia per il fotovoltaico.

Due parole sul meccanismo dei certificati bianchi che è in vigore dal 2005. Dopo una prima fase di rodaggio, culminata con la revisione del meccanismo ad opera del DM 21/12/2007, i certificati bianchi stanno iniziando a dare risultati consistenti. Si pensi che nel 2008 il risparmio di energia primaria è stato di 2 Mtep ed entro il 2012 si dovrà arrivare a 6 Mtep di energia primaria. Dal punto di vista dei costi/benefici per la collettività, questo meccanismo comporta oneri “apparenti” per gli utenti in bolletta per circa 300 milioni di euro l’anno, ai quali fanno in realtà fronte, in virtù dei risparmi energetici annui ottenuti dagli utenti, benefici sociali netti per 1,2 miliardi di euro, scontando sia gli oneri apparenti in bolletta che gli investimenti annui nelle tecnologie di efficienza.

Per quanto riguarda i meccanismi di incentivazione dell’elettricità da fonti rinnovabili, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas stima costi complessivi a carico degli utenti per 2,5 miliardi di euro nel 2009. Per far fronte al nuovo obiettivo di diffusione delle rinnovabili, questi oneri cresceranno fino a 6,5 miliardi nel 2020 nei soli impieghi elettrici. Dato che questa valutazione non considera, fra l’altro, gli ulteriori oneri - comparativamente inferiori a parità di energia incentivata - che saranno necessari per incentivare la diffusione degli impianti a fonti rinnovabili per la produzione di calore o freddo (solare termico, solar cooling, biomasse, pompe di calore, geotermia) - un ampliamento settoriale, questo, richiesto dalla nuova direttiva sulle fonti rinnovabili - è evidente che l’attuale sistema di incentivazione delle misure di riduzione della CO2 presenta forti squilibri i quali andrebbero armonizzati stimolando innanzitutto l’efficienza energetica e le rinnovabili per la produzione di calore o di freddo. Infatti, un confronto di convenienza economica a parità di CO2 evitata evidenzia che, mentre i certificati bianchi per il risparmio energetico comportano un beneficio economico netto per la collettività di 223 euro/t CO2 evitata (benefici annui al netto dei costi d’investimento e di incentivazione), i certificati verdi utilizzati per incentivare i grandi impianti di generazione alimentati con fonti rinnovabili comportano un onere stimabile sulla componente energia della bolletta di 181 euro/t CO2 e il conto energia per il fotovoltaico aumenta l’onere a 735 euro/t CO2 (ricadente in bolletta attraverso la componente A3).

Ovviamente, anche noi auspichiamo un’ampia diffusione delle tecnologie basate sulle fonti rinnovabili e il pieno rispetto della nuova direttiva europea 28/2009. Tuttavia, quando si parla di fonti rinnovabili non bisogna dimenticare che non sono fonti illimitate e liberamente accessibili; al contrario sono fonti in vario modo limitate dalla disponibilità di territorio necessario al loro sfruttamento e che in alcuni casi le tecnologie attuali possono comportare problemi di compatibilità con usi alternativi del territorio e del paesaggio, in particolare nel nostro paese, dove la qualità del territorio contribuisce in maniera sempre più incisiva (attraverso il turismo, il commercio di prodotti eno-gastronomici, la moda, il design) alla formazione della ricchezza nazionale. In termini di produzione interna dell’Italia, abbiamo stimato che, pur rimodulando gli strumenti di incentivazione in un’ottica di sistema e secondo finalità di efficienza economica e uso razionale del territorio disponibile, è possibile una triplicazione della produzione nazionale delle rinnovabili al 2020 rispetto al 2005.

La promozione delle fonti rinnovabili su una scala vasta e capillare, come quella richiesta dagli obiettivi della nuova direttiva europea, pone quindi un problema politico di più ampia portata, che riguarda la nostra capacità di tutelare, preservare e innovare la qualità del nostro territorio in maniera consapevole. Bisogna allora sottolineare che le opportunità della nuova direttiva europea sulle fonti rinnovabili non sono affatto circoscritte al conseguimento dell’obiettivo nazionale e ancora meno al suo conseguimento esclusivamente con interventi domestici. Lo sviluppo delle fonti rinnovabili può dare tante opportunità alle nostre piccole-medie imprese (Pmi) in Europa e non solo: se accompagnata da un’adeguata politica nazionale di supporto all’internazionalizzazione delle Pmi, può costituire un volano per la penetrazione sui mercati degli altri Paesi del Mediterraneo e nelle economie emergenti.

Proposte per un cambio di passo

Ovviamente, la strategia di efficienza parte dal negoziato internazionale sul clima. Qualunque sia il seguito del fragile accordo politico di Copenaghen, nel prosieguo del negoziato in sede UNFCCC l’Italia e l’Europa intera dovrebbero farsi promotrici di iniziative che valorizzino il potenziale di miglioramento dell’efficienza energetica a livello internazionale:
- nel burden sharing fra i paesi industrializzati, cercando di impegnare i paesi più inefficienti e ricchi su riduzioni percentuali delle emissioni relativamente maggiori;
- nel funzionamento dei meccanismi di flessibilità, estendendo il commercio dei permessi di emissione almeno a tutti i paesi industrializzati, adottando benchmark settoriali di efficienza energetica, e rafforzando il ruolo delle misure di efficienza energetica nell’ambito del meccanismo di sviluppo pulito (Cdm) o dei nuovi meccanismi in via di definizione;
- negli strumenti di cooperazione e coinvolgimento delle economie emergenti nel controllo delle emissioni di gas serra, concordando per tali paesi obiettivi di efficientamento energetico compatibili con le loro legittime aspirazioni di sviluppo economico;
- nel sostegno finanziario offerto ai Pvs, commisurando l’entità delle risorse offerte al fabbisogno economico di tali Paesi, a piani di sviluppo sostenibile e a criteri di costo/beneficio degli interventi .

Ma è soprattutto sul fronte interno europeo che si giocherà la partita per l’Italia, coi suoi punti di forza e di debolezza. L’Europa ha fallito a Copenhagen anche perché dietro l’apparente compattezza del “20-20-20” si nascondono profonde divergenze nella politica energetica europea. L’Europa non è affatto compatta su quella che, nelle enunciazioni formali e in teoria, dovrebbe essere il motore di una strategia climatica attenta alla competitività e all’innovazione tecnologica del vecchio continente: la politica di efficienza negli usi di energia. Pochi lo sanno, perché anche i mass media sono caduti nel tranello, ma il “20-20-20” è sempre stato monco di un “20”. Sotto le spinte delle lobby prevalenti nei big europei, il pacchetto di provvedimenti sinora approvato in Europa non comprende affatto l’obiettivo quantitativo del 20% di efficienza energetica, nonostante fosse stato enunciato dal Consiglio di marzo del 2007. Non abbiamo nessuna direttiva quadro sull’efficienza energetica al 2020, mentre abbiamo due nuove direttive quadro, sulle fonti rinnovabili e sulle emissioni di gas serra nei settori Ets (grandi impianti energetici e industriali), e una semplice Decisione di riduzione dei gas serra nei settori non-Ets. Come dire: l’Europa ha partorito un bambino ma non c’è il latte per consentirne la crescita. Mancano i provvedimenti più importanti che consentirebbero di dare vita agli obiettivi del pacchetto. L’Europa non ha realizzato una politica davvero integrata (leggi “economicamente ottimizzata”) degli obiettivi di gas serra, rinnovabili e domanda di energia. All’efficienza non è stata data la priorità che a nostro parere merita non solo in Italia, ma in tutta Europa. La “dimenticanza “ dell’efficienza energetica costituisce il punto più debole di una strategia che vuole essere ricca di opportunità, concepita non solo per esigenze ambientali ma anche per rafforzare la competitività europea. Pensiamo che sia maturo il momento per chiedere tutti insieme, come sistema Italia, un’inversione di rotta nella politica italiana ed europea. Occorre chiedere un obiettivo vincolante di risparmio energetico mediante misure di efficienza in tutta Europa. Questo obiettivo deve almeno essere del 20%, cioè pari all’obiettivo di riduzione dei gas serra, in maniera tale da assicurare che ogni Stato intraprende la necessaria dose di misure economicamente convenienti per la riduzione delle emissioni di gas serra. Questo obiettivo è necessario per rendere possibile e credibile l’impegno di riduzione delle emissioni di gas serra dell’Europa nel contesto globale. Inoltre, così come è stato realizzato un burden sharing nazionale nei settori non-ETS e nelle rinnovabili, anche all’obiettivo europeo di risparmio energetico dovrebbe essere consentita la differenziazione nazionale degli impegni, in maniera tale da ottimizzare la strategia europea, coinvolgendo tutti gli Stati e senza escludere a priori un maggior impegno nei paesi ricchi relativamente più inefficienti sotto il profilo energetico. Tutti devono fare la loro parte, ma cerchiamo di partire dalla riduzione degli sprechi.

Per quanto riguarda l’Italia, le attuali valutazioni di potenziale al 2020, realizzate dall’ENEA, portano a ritenere che un obiettivo compreso fra il 15-20% sia realizzabile a costo zero o a costi trascurabili. Tuttavia, occorre una svolta nella politica nazionale. Non servono nuovi atti o leggi, se non sostenuti da una convinta volontà politica. Più che di misure straordinarie (leggi “piano straordinario di efficienza energetica” previsto dalla legge sviluppo entro la fine del 2009), o di un piano nazionale che rimane nei cassetti (vedi piano del Ministero dello Sviluppo economico del luglio 2007, un documento che è diventato un vero e proprio “fantasma” nell’ambito della nostra legislazione), per non parlare del Dlgs 155 del 2008, che ha recepito la direttiva quadro sull’efficienza energetica negli usi finali (che è rimasto lettera morta), il nostro paese ha bisogno di una politica convinta sull’efficienza energetica, in maniera tale da agevolare la riduzione dei gas serra, il rispetto dell’obiettivo di sviluppo delle rinnovabili e la riduzione della nostra dipendenza energetica dall’estero, favorendo sia l’accelerazione degli investimenti nelle tecnologie e nei servizi energetici, sia la ripresa economica, partendo proprio dalle Pmi che caratterizzano il tessuto produttivo del nostro paese.

Il principale fattore di stimolo del rilancio delle politiche di efficienza passa attraverso la responsabilizzazione delle regioni, in coerenza con gli impegni già assunti in Europa e che dovranno essere rinnovati dopo Copenhagen. Senza obiettivi regionali al 2020 non potremo ambire a risultati incisivi al 2050 e oltre. Occorre infatti tener presenti i tempi di realizzazione delle infrastrutture di efficientamento necessarie nei trasporti e nell’edilizia.

Settore dei trasporti
E’ poi inderogabile, nei trasporti, per ridurre l’incidentalità stradale e la congestione, un piano di “Emergenza Trasporti Passeggeri” basato sulle infrastrutture di trasporto capaci di sfruttare il vasto potenziale di efficienza energetica nella mobilità passeggeri e merci insito nelle modalità alternative alla strada (rotaia e trasporto marittimo). Mentre qualcosa è stato fatto nei trasporti a lunga distanza (leggi TAV), la vera emergenza oggi e per i prossimi decenni sono i trasporti locali. Basta con lo spreco di risorse pubbliche in misure di dubbia efficacia per il traffico urbano! L’ultimo esempio è il finanziamento pubblico di centraline per la ricarica di auto elettriche, capace solo di generare nuovi costi esterni da mobilità privata, attraverso lo stimolo all’acquisto di terze e quarte nuove auto per famiglia. Alla luce del salto qualitativo che richiede l’emergenza climatica, anche continuare a puntare sul trasporto pubblico su gomma rischia di essere poco efficace: rischia di non soddisfare le esigenze di qualità ambientale, accessibilità, tempestività di arrivo e di velocità richieste dall’utenza. La scriteriata e pericolosa diffusione che hanno avuto le due ruote nei nostri centri urbani più congestionati (come risposta all’assenza di alternative di trasporto pubblico) dimostra che, o il servizio pubblico diventa competitivo con le prestazioni offerte dalle due ruote, o ogni tentativo di rafforzamento dei trasporti pubblici continuerà a risultare fallimentare.

La cura esiste e lo dimostrano le metropoli internazionali dotate di una capillare rete metropolitana e di collegamento ferroviario con l’hinterland. In Italia ci siamo dimenticati (ci abbiamo rinunciato, forse per sfinimento) che l’unica via di uscita è un convinto programma di estensione e potenziamento del trasporto locale di massa su rotaia, e questo lungo i tre assi prioritari: ambito urbano, collegamenti città-periferia (metropolitane leggere, linee ferroviarie locali-regionali) e collegamenti intercity regionali. In una situazione di risorse economiche scarse, non bisogna arrendersi: che si ricorra al project financing e, per la quota di contributo pubblico, che l’amministrazione applichi l’analisi costi benefici nell’uso delle risorse pubbliche per individuare le priorità d’intervento (i bacini di traffico che denunciano le situazioni più critiche, come l’hinterland milanese, il Veneto, il Lazio, l’area di Firenze, la Liguria e molti altri casi). Visti i risultati degli studi sui costi esterni dei trasporti in Italia (5-10% del PIL!), le risorse pubbliche salteranno fuori, perché oggi l’incidentalità stradale, l’inquinamento e la congestione da traffico pesano non solo sui singoli cittadini ma anche e pesantemente sulle casse dello Stato.

Nel trasporto merci, le soluzioni sono analoghe sotto il profilo infrastrutturale, con un ruolo da protagonista non solo per la rotaia ma anche per il trasporto marittimo (soprattutto nel trasporto merci, ma anche in quello passeggeri si potrebbe fare di più, come dimostra l’esempio delle autostrade del mare della penisola sorrentina): l’efficienza energetica “spinta” richiede un programma per la realizzazione di infrastrutture a supporto del trasporto combinato strada-rotaia (centri intermodali e relativi collegamenti) e a supporto del combinato marittimo (piccole e medie infrastrutture per il miglioramento della logistica e dei collegamenti fra il porto e le arterie stradali e ferroviarie abilitate al traffico merci). Amareggia constatare che le finalità di sicurezza stradale e “decongestionamento strutturale” non siano riconosciute dalla politica come delle vere e proprie emergenze sociali, e che la priorità del supporto pubblico all’investimento in questi due settori sia data ad altri progetti, sub-ottimali nei profili di utilità pubblica.

Settore dell’edilizia
Anche nell’edilizia sono necessari massicci investimenti infrastrutturali e immobiliari, anche se qui la situazione di policy è diversa, in quanto sono appena entrati in vigore i primi Decreti attuativi (DPR 59/2009 e DM 26/6/2009) del Decreto legislativo 192/2005, che ha recepito la nota direttiva europea del 2002 sugli standard energetici e la certificazione edilizia, introducendo, fra l’altro, disposizioni specifiche, molto più ambiziose degli obblighi comunitari. Data la portata di questo nuovo corpus normativo, di cui l’Europa sta già discutendo la fase due (proposte di direttive della Commissione del 13 novembre 2008) andando a influire in maniera ancor più incisiva sulle singole unità immobiliari, in Italia sarebbe necessaria perlomeno una massiccia campagna informativa finalizzata a informare, sensibilizzare e coinvolgere tutti i soggetti interessati dall’applicazione della normativa. In particolare, è necessaria una vasta opera di sensibilizzazione sul certificato energetico dell’edificio e di valorizzazione delle informazioni ivi riportate, ad esempio traducendo gli indicatori energetici di sintesi forniti dal cruscotto in extracosti costi annui dell’unità immobiliare rispetto al miglior standard di riferimento.

Strumenti d’incentivo
Per quanto riguarda gli strumenti di incentivazione delle misure di efficienza energetica, oltre alle detrazioni fiscali fruibili per gli interventi nell’edilizia, l’Italia ha un meccanismo di portata generale, quello dei Titoli di Efficienza Energetica (o “certificati bianchi”), che sta avendo buoni risultati e che dovrebbe essere visto come una best practice nazionale da esportare in tutta Europa (non ultimo, proprio per ottimizzare il raggiungimento degli obiettivi di CO2). Per raccordare i certificati bianchi con gli obiettivi europei al 2020, bisognerà estendere l’ambito di applicazione dell’obbligo di risparmio, sia riducendo le soglie dimensionali per l’obbligo nei settori già coperti (distributori di elettricità e gas), sia coinvolgendo i settori di consumo finale sinora rimasti esclusi. L’incremento dell’obbligo di risparmio energetico determinerà un forte incremento del valore di mercato dei certificati bianchi, necessario per stimolare gli investimenti più onerosi. Nell’immediato, ne beneficeranno soprattutto le ESCO, gli Energy e i Mobility manager sempre a corto di risorse, gli operatori di logistica, i gestori delle grandi flotte veicolari, navali e aeree che sapranno realizzare progetti di efficienza. A medio e lungo termine ne beneficeranno tutti gli utenti: famiglie, imprese, pubbliche amministratori, con ricadute utili per l’intero paese.

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