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I dolori delle periferie schiacciate dalla crisi
Due topolini che fanno paura agli elefanti, o meglio ai tori delle borse di tutto il mondo. Grecia e Portogallo hanno insieme un prodotto interno lordo (Pil) poco superiore al fatturato dell'impresa più grande del mondo, i petrolieri della Exxon. Eppure i loro conti pubblici hanno scatenato il panico e fatto cadere le quotazioni, da Londra a Tokyo. Per comprare titoli di stato di Atene si chiede ora un rendimento di 3,8 punti percentuali più alti dei Bot tedeschi e Lisbona nei giorni scorsi è riuscita a vendere solo 300 dei 500 milioni di euro di nuovi titoli pubblici per le richieste di tassi più alti di rendimento.
A scatenare il tutto la crescita del deficit - fisiologica in tempi di recessione - dei conti pubblici, salito al 12,7% del Pil ad Atene e al 9,3% a Lisbona, mentre le vecchie regole dell'Unione monetaria europea impongono un limite del 3%. Per finanziare questi deficit il debito pubblico è ora pari al 112% del Pil in Grecia e all'85,4% in Portogallo. Con Spagna e Italia (e quasi tutti gli altri paesi europei) che scivolano lungo la stessa deriva di regole non rispettate, i mercati finanziari hanno iniziato a speculare contro l'euro, sceso ieri a 1,36 dollari, e a chiedersi se l'Europa deciderà un «salvataggio» dei paesi in difficoltà.
L'instabilità ha anche una radice politica, nei problemi che governi (deboli) a guida socialista hanno nel realizzare drastiche riduzioni della spesa pubblica: le hanno promesse, sotto la pressione dell'Unione e della Banca centrale europea, ma appena hanno provato a introdurle si sono visti travolgere da scontri politici e conflitti sociali. A Lisbona ieri il parlamento ha respinto il piano di riduzione di spesa e ha approvato - contro il governo - una legge che consente un ulteriore indebitamento di 400 milioni di euro alle isole Azzorre e Madeira. Da ieri sono iniziati gli scioperi contro i tagli di spesa e di posti di lavoro statali e il congelamento dei salari decisi dal governo. In Grecia si sta allentando solo ora il blocco delle strade e delle frontiere imposto dagli agricoltori che protestano per il peggioramento dei redditi, sono in sciopero i dipendenti delle dogane e si moltiplicano le proteste sociali.
Così, per i centri della finanza e della politica europea, il «problema sud Europa» è stato posto in termini di disciplina politica e sociale, con la spesa pubblica come avversario principale. I paesi che vogliono stare nell'euro - questo il monito di Bruxelles - devono rispettarne le regole e non possono vivere a credito. Curioso, perché reazioni ben diverse erano venute quando la crisi finanziaria ha aggredito l'Europa da nord, con il collasso delle banche in Islanda, lo scoppio della bolla immobiliare in Irlanda e le convulsioni delle repubbliche baltiche. Una crisi ben più seria di quella mediterranea, con cadute del Pil dell'11% a Dublino e del 19% a Riga, dove i disoccupati sono al 20%. Tuttavia, il «problema nord Europa» è stato derubricato a cattivi comportamenti finanziari ed eccessivo debito privato, si sono messi in campo prestiti e interventi di Ue e Fmi e l'euro (presente solo in Irlanda) è stato lasciato fuori dalla crisi.
Nel sud, dove il debito è pubblico, le bolle speculative limitate, la crisi meno violenta, scoppia invece il caso politico. Eppure la spesa pubblica è stata proprio il motore della crescita recente di Grecia e Portogallo (nell'ultimo decennio Atene è cresciuta del 4,2% l'anno), all'ombra della stabilità (e dei bassi tassi d'interesse) garantita dall'euro. Il problema è che mercato unico e adesione all'euro hanno portato la periferia dell'Europa a pagare in termini di economia reale i benefici ottenuti sul piano monetario. Vediamo il caso della Grecia: ora Atene ha meno dell'1% della produzione manifatturiera della Ue e ha la quota più bassa di occupazione industriale. In compenso è al terzo posto per numero di addetti a hotel e ristoranti. Ridursi a luogo di vacanza d'Europa ha indebolito l'economia e ha travolto i conti con l'estero: il saldo negativo tra export e import era di 17 miliardi di euro nel 1998 (prima dell'euro) ed è più che raddoppiato dieci anni dopo (38 miliardi nel 2007, pari al 14% del Pil). La stessa dinamica ha travolto la Spagna, dove il deficit commerciale si è moltiplicato per cinque, da 21 a 100 miliardi, e il Portogallo, dove è salito da 12 a 20 miliardi di euro. Nel caso di Atene - raccontato dall'articolo di Laura Bisio su sbilanciamoci.info (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Crisi-del-debito-oggi-Atene-domani-Roma) a tappare i buchi dei conti con l'estero sono arrivati gli investitori stranieri, con un flusso di prestiti pari al 10 per cento del Pil l'anno. Di qui è venuta un'esposizione debitoria verso l'estero sia pubblica che privata, che ha messo Atene tra la padella dei mercati finanziari e la brace delle ricette della Banca centrale europea.
Quello che si sta delineando è, in realtà, un doppio braccio di ferro tra i paesi della periferia d'Europa e il centro politico-economico da un lato - Ue e Banca centrale - e i mercati finanziari della'altro. La partita politica riguarda le regole dell'Unione e la gerarchia che si deve ristabilire: l'asse franco tedesco (con Parigi zoppicante) davanti e tutti gli altri a debita distanza. Quella economica riguarda l'economia reale - il controllo dei mercati, le quote della produzione rimasta alla vecchia Europa, la divisione del lavoro - più ancora della solidità dell'euro che non è messa in discussione da guai di un paese come la Grecia (2,5% del Pil dell'area euro). Quella finanziaria riguarda le nuove occasione di speculazione che i mercati potranno inventare.