Home / Newsletter / Newsletter n. 60, 17/12/2009 / Debito e ambiente, le crisi parallele

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Newsletter

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Debito e ambiente, le crisi parallele

15/12/2009

Connessioni e suggestioni dei due crack che ci minacciano. Entrambi basati sui nostri falsi crediti. Intervista a Wolfgang Sachs: "Serve un disarmo ecologico"

Il crollo del sistema finanziario ha costretto molti commentatori, perfino quelli più riluttanti a riconoscere le ingiustizie connaturate al sistema capitalistico, ad ammettere i limiti di un’economia che tende a mantenere i privilegi di alcuni negando i diritti dei più; allo stesso tempo, secondo alcuni, rappresenta un’opportunità per ripensare radicalmente il sistema economico, collocandolo all’interno di una prospettiva più ampia, che includa, per esempio, anche i “diritti della biosfera”. Ritiene che la crisi finanziaria possa contribuire a svincolarci da quella forma di riduzionismo economicista che nasconde alla società industriale, orientata alla crescita senza limiti, le alternative praticabili?

Direi di sì; è possibile infatti riconoscere un lato positivo nel collasso del capitalismo finanziario, perché tutto ciò che danneggia o limita la crescita economica si traduce in qualche modo in un beneficio per l’ambiente; certo, il crash economico minaccia di trasformarsi in una catastrofe sociale di enorme portata, ma se adottiamo un punto di vista strettamente ecologico costituisce comunque un guadagno prezioso di tempo, per esempio rispetto al cambiamento climatico o al declino della biodiversità. In linea generale, mi sembra poi che tra la crisi finanziaria e quella ambientale esistano parallelismi molto significativi, da cui potremmo trarre indicazioni interessanti; la crisi finanziaria è stata annunciata da parecchio tempo: molti economisti e studiosi di scienze politiche, e gli stessi analisti finanziari, avevano previsto che si sarebbe verificato un collasso simile a quello che stiamo vivendo; tutti erano consapevoli di procedere su un terreno rischioso. Allo stesso modo, nel caso della crisi della biosfera, tutti ormai sanno e riconoscono che ci stiamo muovendo su una lastra di ghiaccio estremamente sottile, e sono molti coloro che ci invitano con insistenza a prestare attenzione ai rischi di un prossimo collasso. Se ne dovrebbe trarre una lezione: se nel caso della crisi finanziaria abbiamo preferito fare finta di niente, evitando di affrontare la realtà, nel caso della crisi della biosfera dovremmo invece prendere le giuste misure, adottare le precauzioni necessarie, piuttosto che nasconderci la verità. C’è poi un secondo elemento di similitudine: la crisi finanziaria è stata provocata in particolare dalla diffusione di falsi crediti, quei crediti che non trovavano riscontro nell’economia reale, che non venivano pagati o che era ormai impossibile restituire. Lo stesso succede nel campo della biosfera: il sistema economico infatti funziona e sopravvive proprio grazie a quei crediti “fasulli” che la natura ci “concede”. Il conto bancario che ci lega alla biosfera viene continuamente sovraccaricato: chiediamo, pretendiamo e prendiamo dalla natura molto più di quanto non siamo in grado di restituirle. In questo senso, otteniamo prestiti senza avere la copertura sufficiente per ripagarli. Proviamo a tradurre in numeri questi argomenti: i ricercatori che hanno analizzato le implicazioni dell’impronta ecologica sostengono che, proiettando il nostro bilancio di pagamenti con la natura nel corso di un anno solare, venti anni fa, l’umanità contraeva debiti e diventava insolvente alla fine dell’anno; dieci anni fa, invece, l’11 novembre, e l’anno scorso già il 23 settembre. Se consideriamo un singolo paese, per esempio la Germania, risulta invece che l’anno scorso il suo indebitamento ecologico ha avuto inizio il 12 maggio; ciò vuol dire che fino a quel giorno la Germania ha agito nei parametri leciti, senza eccedere le possibilità del proprio conto in banca con la natura, mentre a partire da quella data ha accumulato debiti che non ha più restituito, ed è diventata insolvente. Esistono dunque analogie interessanti tra il campo finanziario e quello ambientale: oltre a quella finanziaria, c’è anche una bolla ecologica; la differenza sostanziale sta però nel fatto che le conseguenze dello scoppio della bolla ecologica saranno non solo estremamente più gravi, ma irreversibili.

 

In Archeologia dello sviluppo (1992) scriveva che con la fine della guerra fredda «i paesi del Terzo mondo saranno liberati dalla disciplina degli schieramenti bipolari, e questo è importantissimo perché si apre davanti a loro il grande progetto di inventare la propria immaginazione» e far emergere «una nuova topografia» politica. Non le sembra che questi paesi, anziché sganciarsi dal modello di sviluppo basato sull’uso delle fonti fossili, abbiano finito col subire quello che lei stesso definisce un «mimetismo socio-industriale», adottando modi di produzione e consumo già obsoleti? In altre parole, non crede che abbiano perduto un’occasione per autodeterminare la propria strada?

 

I paesi del Sud hanno senz’altro sprecato quell’occasione, ma l’hanno fatto anche quelli del Nord. Prendiamo, ancora una volta, il caso della Germania: dopo il crollo del Muro, ci sarebbe stata la possibilità di ricostruire le zone dell’Est seguendo un modello diverso, e invece si è preferito imitare quello dell’Ovest. È innegabile che anche in questo caso sia andata sprecata un’occasione: non solo era possibile fare le cose altrimenti, ma c’erano anche persone che proponevano in modo sensato e articolato le traiettorie da seguire. Anziché “modernizzare” e ricostruire gli impianti energetici sulla base delle risorse fossili, avremmo potuto privilegiare le energie rinnovabili. Vent’anni fa, dunque, anche in Germania ha avuto la meglio il “mimetismo del vincitore”, e lo stesso è accaduto in tutte quelle aree che una volta venivano definite sottosviluppate. Ci saremmo dovuti rendere conto, invece, che quando uno sviluppo compiutamente realizzato si rivela essere un vicolo cieco non ha più senso parlare di sottosviluppo e continuare a credere nell’esistenza di un’unica strada da seguire. Quando lo sviluppo perfettamente perseguito e realizzato ci porta in un vicolo cieco, è consigliabile fare marcia indietro e cercare altre vie; e quando ci si trova in un vicolo cieco risulta più avvantaggiato chi ha percorso “meno strada”, chi è rimasto più “indietro”, perché, trovandosi più vicino all’imbocco del vicolo, ne potrà uscirà più facilmente. In questi termini, le aree tradizionalmente percepite come sottosviluppate godono oggi di maggiori opportunità e di imboccare invece la strada del futuro sostenibile. È questo che si intende quando si parla di ecological leapfrogging. Ecco un semplice esempio: in molti paesi, anche del Sud del mondo, oggi la diffusioni del telefonino portatile riduce o elimina il bisogno di installare un sistema di telecomunicazione basato su strutture e collegamenti fissi. La cosa funziona, e lo stesso meccanismo dovrebbe essere usato per “saltare” alcuni tratti del percorso compiuto dai paesi industrializzati. In questo modo alcuni stati potranno raggiungere più velocemente e forse prima dei vecchi paesi industrializzati la meta finale, a cui tutti dovremmo aspirare: l’economia post-fossile.

 

 

 

Prima di raggiungere quella meta, ci sono però due contraddizioni fondamentali da risolvere, gravide di rilevantissime conseguenze politiche e sociali, che Lei sottolinea nell’ultimo rapporto del Wuppertal Institut, Per un futuro equo. La prima: da una parte «il desiderio di uguaglianza e dignità delle persone e delle società è rivolto ai modelli di benessere dei paesi ricchi», ma dall'altra la democratizzazione del benessere occidentale, considerata la finitezza della biosfera, porterebbe al collasso ecologico. La seconda: «alla disparità nell’appropriazione e nel consumo delle risorse, corrisponde anche una forte disparità e disomogeneità delle ricadute dei costi ambientali e sociali: chi gode dei benefici ambientali ne fa pagare i costi a coloro a cui sottrae le risorse» (e per questo parlate di frammentazione globale, piuttosto che di globalizzazione). Come uscirne?

 

Nei periodi di scarsità, quando appare un limite, si approfondiscono gli scontri e si radicalizzano i conflitti per la distribuzione. Quando la disponibilità di una certa risorsa è limitata, è inevitabile che ci si chieda con più insistenza e urgenza a chi appartenga ciò che rimane di quella risorsa e per quale scopo vada usata. Allo stesso modo, sta diventando sempre più importante la domanda relativa a chi potrà godere di ciò che rimane disponibile della biosfera. Ma questo vale per ogni risorsa: prendiamo il caso del petrolio, la cui distribuzione oggi viene gestita attraverso due meccanismi principali: da un lato, l’esercizio del potere politico-militare, dall’altro, il potere di acquisto. Se, come è accaduto fino a qualche mese fa, ci si trova in una fase in cui il prezzo del petrolio sale continuamente, è inevitabile che ciò finisca per tradursi in una sorta di strangolamento economico, in una vera e propria condanna per tutti gli attori più poveri, per tutti quei paesi che non hanno né petrolio né soldi sufficienti per competere sui mercati internazionali. Negli ultimi due anni, è successo proprio questo: l’aumento del prezzo del petrolio si è tradotto in una corrispondente ondata di impoverimento per coloro che non erano in grado di sostenere la competizione dei prezzi. In questo caso, come in altri, la riduzione della domanda potrebbe aprire nuovi spazi, concedendo opportunità inedite a quanti hanno minore potere d’acquisto; la riduzione della domanda potrebbe dunque diminuire la conflittualità che deriva dalle situazioni di scarsità. In questo senso, una politica volta a un’economia di risorse leggera, o, detto in altri termini, destinata al disarmo ecologico, costituisce allo stesso tempo una politica in favore dei più deboli e vulnerabili. Per quanto riguarda i costi ambientali e sociali del caos climatico, essi andranno a colpire in primo luogo i paesi più poveri e, all’interno dei paesi più poveri, le fasce di popolazione più povere. È l’agricoltura infatti la prima a essere colpita, e in particolare l’agricoltura praticata su terreni fragili; il cambiamento climatico modificherà sostanzialmente il tasso di umidità dell’aria, l’incidenza e la frequenza delle piogge, la fertilità del suolo, modificando ciò che la terra genera. Per le economie già fiacche, questi cambiamenti potrebbero rappresentare un vero colpo di grazia, e molte persone potrebbero essere costrette ad abbandonare i luoghi dove risiedono e a fuggire nelle città, o in Europa. Seicento milioni di persone vivono su terreni che si trovano lungo le coste a un metro sotto il livello del mare: quando si alzerà quel livello, del 60% ma anche solo del 20, è facile immaginare le conseguenze. Sarà una tragedia enorme, che colpirà proprio quelli che dispongono di pochi mezzi per proteggersi ed evitare quelle conseguenze, i più vulnerabili. Se questo è vero, si tratta allora, in primo luogo, di una questione di diritti umani: bisogna evitare che i costi ambientali e sociali si riversino su chi vive in altri luoghi; il nostro eccessivo consumo di risorse fossili, lo stesso processo di combustione che finisce col produrre CO2, fa sì che vengano violati i diritti umani all’alimentazione, alla casa e alla sicurezza economica. Non è più lecito, ed è completamente irresponsabile, sostenere che non è possibile adottare un’adeguata politica sui cambiamenti climatici perché potrebbe danneggiare la competitività economica. L’unico atteggiamento responsabile è quello di ridurre gli effetti climatici: il disarmo ecologico è il modo migliore per garantire più equità nel mondo.

 

 

 

Wolfgang Sachs, nato a Monaco nel 1946, tra i principali esponenti del movimento verde in Germania, è stato condirettore del giornale “Development” e ha insegnato in diverse università. Dal 1993 al 2001 è stato direttore di Greenpeace Germania, dal 1991 al 2001 ha lavorato con l’Intergovernmental Panel on Climate Change; dal 1993 lavora come ricercatore presso il Wuppertal Institut für klima, umwelt, energie, dove è coordinatore del progetto interdisciplinare “Globalization and Sustanaibility” e membro del collegio “Environment and Fairness in the World Trade Regime”. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Archeologia dello sviluppo. Nord e Sud dopo il tracollo dell’Est (Macroedizioni 1992); Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione (Editori Riuniti 2002). Ha curato: Dizionario dello sviluppo (Edizioni Gruppo Abele, 1998), con R. Loske e M. Linz Futuro sostenibile. Riconversione ecologica, nord-sud, nuovi stili di vita (Editrice Missionaria Italiano 1997), Il Jo’burg Memo. Ecologia, il nuovo colore della giustizia (EMI 2002), con T. Santarius Per un futuro equo. Conflitti sulle risorse e giustizia globale

(Feltrinelli, 2007).

La versione completa dell'intervista a Wolfgang Sachs, di Giuliano Battiston, è in “Lettera Internazionale” (

www.letterainternazionale.it), n.99, 2009.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti