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Né salari né contratti. Attenti a quell'Accordo
L'Accordo Quadro su salari e contratti, applicato ai tempi della crisi, penalizzerebbe ancora di più il lavoro. Un'analisi sugli effetti reali del nuovo modello
E’ noto che l’attuale governo ama procedere per strappi continui, avanzando proposte ed introducendo questioni che scatenano polemiche e fanno dimenticare quelle appena passate. L’effetto annuncio è forse più importante della effettiva realizzazione delle politiche concepite. In alcuni casi si passa però alla fase operativa, e le proposte diventano decreti e poi leggi, e quindi regolamenti applicativi, ancor più rilevanti delle leggi medesime. In altri casi si rimane allo stato delle congetture. Sembra questo ultimo essere il caso della contrattazione di livello aziendale e degli incentivi fiscali per sostenerla. E’ stata riproposta di recente l’idea di legare il salario ai risultati economici delle imprese. Il ministro Sacconi ha specificato qualche settimana or sono che sarebbe opportuno legare il salario agli utili (profitti) delle imprese, e sostenere questo con incentivi fiscali. L’idea per ora rimane una congettura: nella legge finanziaria in discussione in questi giorni non vi è traccia, mancando le risorse finanziarie che il ministro Tremonti non mette a disposizione.
Ma l’ipotesi merita di essere comunque segnalata, e deve essere valutata alla luce del contesto in cui si vuole che sia inserita. Si tratta dell’Accordo Quadro sulla Contrattazione, firmato da governo e parti sociale nel gennaio 2009 e non sottoscritto dalla Cgil. Occorre riprendere la valenza di questo accordo e discutere qui due temi fondamentali riguardanti le relazioni industriali: (a) il modello contrattuale e (b) la salvaguardia del potere d’acquisto dei salari.
L’Accordo Quadro
Sia chiaro sin d’ora: su entrambi i fronti l’Accordo Quadro disattende le aspettative e lascia nodi irrisolti. Il giudizio finale sull’accordo è negativo.
Inoltre, in un contesto di crisi economica come l’attuale, la riproposizione della applicazioni di quell’accordo, con una forzatura importante come quella avanzata dal ministro Sacconi di recente e ripresa con entusiasmo da alcune parti sociali, cioè quella di legare le retribuzioni agli utili aziendali - già di per sè non opportuna nel merito -, sembra più una provocazione che una idea illuminata. Se venisse applicata per il 2009 a fronte degli esiti di redditività delle imprese italiane attesi a chiusura dei bilanci nella primavera del 2010, essa segnerebbe di certo una riduzione delle retribuzioni del lavoro ed il mondo del lavoro dipendente privato si troverebbe a pagare ulteriormente il costo della crisi nelle buste paga di inizio estate 2010, con un saldo negativo delle retribuzioni legate alle perdite (non agli utili) d’impresa.
Anche per questa ragione, si auspica che nel prossimo futuro le parti sociali ed il governo, invece di fantasticare con pretesa leibniziana come fa il Candido di Voltaire nel suo viaggio tragicomico dove tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili, abbiano la capacità ed il coraggio di innovare a fondo il sistema di relazioni industriali, dando vita ad un modello produttivo partecipativo sulla cui base fondare il rilancio della competitività delle imprese.
Ma occorre ricordare fin da ora che la genesi e l’evoluzione dei sistemi di relazioni industriali non sono estranee ai portati storici rappresentati dagli accordi tra le parti sociali ed all’intervento dello stato. Quest’ultimo svolge un ruolo fondamentale nel promuovere, correggere od ostacolare le relazioni industriali. Il diverso atteggiamento che la parte pubblica assume nei confronti delle relazioni industriali e delle parti sociali dipende in modo cruciale dall’orientamento politico delle autorità di governo.
Da questo punto di vista, crediamo non sia lecito far crescere tra i lavoratori rosee aspettative su un vero rinnovamento positivo del sistema di relazioni industriali per il nostro paese, almeno a breve o medio termine.
Infatti, per quanto concerne il caso italiano, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una progressiva azione di delegittimazione del dialogo sociale, inteso come strumento di concertazione tripartita, soprattutto da parte dei governi di destra nella XIV (2001-2006) e XVI (dal 2008) legislatura. La criticità dell’attuale momento storico dovrebbe spingere la parte pubblica, di qualsiasi orientamento, ad adottare un comportamento volto a promuovere politiche di concertazione che abbiano come obiettivo principale l’uscita dalla crisi in tempi rapidi ed al minimo costo sociale, evitando il continuo utilizzo strumentale della “naturale” competizione tra i sindacati in accordo ad una logica del divide et impera.
In questo quadro di rapporti tra sindacati e parte pubblica si è consumato l’episodio della firma dell’Accordo Quadro del 22 Gennaio 2009, che non ha visto al tavolo dei firmatari il sindacato più rappresentativo: la Cgil.
Un primo interrogativo che sorge dopo la firma di tale accordo riguarda la capacità di implementazione dello stesso, soprattutto a livello decentrato, se il maggiore sindacato non ne giudica condivisibili i contenuti.
Siamo ben lontani dal 1993. In quella fase, la contrattazione collettiva ed un modello di relazioni industriali basato su di essa e, soprattutto, improntato al dialogo sociale hanno rappresentato lo sviluppo di un modello europeo di relazioni industriali che è andato costruendosi dagli anni novanta ad oggi. La stessa esperienza italiana, almeno formalmente, ha visto nascere nei primi anni novanta, con l’Accordo di Luglio del 1993, uno spirito concertativo che sfortunatamente è andato dissolvendosi e snaturandosi, sino a rimanere negli ultimi anni lettera morta o sino ad essere rifiutato dalla parte pubblica quale strumento per disegnare politiche del lavoro concordate con sindacati e rappresentanze degli imprenditori.
Due nodi principali rimangono comunque aperti dopo lo svuotamento del modello di relazioni industriali nato con l’Accordo di Luglio del 1993.
Contrattazione e modalità del salario variabile
Il primo aspetto riguarda il riordino dell’assetto contrattuale ed il ruolo del salario.
La soluzione dell’Accordo Quadro in termini di livelli della contrattazione non è dissimile da quanto già previsto nell’Accordo di Luglio 1993 e nel modello di riforma degli assetti contrattuali della Piattaforma Unitaria del maggio 2008, firmata da tutti i sindacati interconfederali. Tuttavia, la gerarchia tra i livelli è diversa nell’Accordo Quadro rispetto alla Piattaforma Unitaria.
Se la Piattaforma Unitaria nel ribadire la presenza di un secondo livello contrattuale, oltre a quello nazionale, definisce il carattere di complementarietà tra i due livelli, l’Accordo Quadro separato esplicita la possibilità per il secondo livello di agire in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale e sottolinea l’importanza delle specifiche intese per riempire di contenuti la contrattazione decentrata. Cade, dunque, l’aspetto di complementarietà come definito dalla Piattaforma Unitaria, mentre si apre la strada alla possibilità che il secondo livello di contrattazione si sostituisca al primo. Sembra pertanto emergere, come sottolineato dalla Cgil la volontà di indebolire il contratto nazionale. Tale posizione non pare semplicemente dettata da una lettura di parte dell’Accordo Quadro, ma da un’interpretazione oggettiva di come potrebbe risolversi l’applicazione dell’accordo stesso, stando ai diversi casi in cui il secondo livello è legittimato ad agire in deroga al primo: non solo casi di grave crisi finanziaria o produttiva, ma anche casi di sviluppo economico ed occupazionale. In sostanza, viene minata la posizione di preminenza del contratto nazionale. Inoltre, la Cgil vede un ulteriore limite nella struttura contrattuale uscita dall’accordo: la possibilità che a livello di impresa prendano forma fenomeni di dumping, ovvero di competizione al ribasso che nuocerebbe ai lavoratori. Queste sembrano essere le principali ragioni del rifiuto da parte della Cgil di sedere al tavolo dei firmatari dell’Accordo Quadro.
Un ulteriore elemento di critica all’Accordo Quadro può essere mosso sul fronte della necessità di ampliare la contrattazione di secondo livello. A tal proposito viene ripreso il meccanismo di incentivazione della contrattazione decentrata basato sulla detassazione e decontribuzione sia per le imprese che per i lavoratori, laddove venga introdotto il salario variabile, negoziato a livello decentrato. I relativi costi sono a carico dei contribuenti. Da ricordare che per assicurarsi sgravi fiscali le imprese, ed eventualmente anche i lavoratori se si innescassero processi collusivi, potrebbero decidere di spostare parte del salario verso il regime più vantaggioso, dando vita a meccanismi retributivi premianti di tipo “cosmetico”, senza alcun legame effettivo con la produttività, ma contrattati a livello decentrato per ottenere gli sgravi fiscali. Tutto questo senza che un regime permanente di agevolazioni fiscali per chi introduce il salario variabile assicuri una effettiva estensione della contrattazione di secondo livello.
Un ulteriore punto da considerare riguarda l’effettiva incentivazione della contrattazione decentrata e chiama in causa il previsto istituto dell’”elemento di garanzia retributiva”. Quest’ultimo dovrebbe configurarsi come elemento sostitutivo del salario variabile contrattato a livello decentrato, laddove non esista la contrattazione di secondo livello. Ma non solo questo, infatti si prevede che tale elemento di garanzia non dovrebbe applicarsi in quei casi nei quali i lavoratori a livello aziendale percepiscano altri elementi retributivi, individuali o collettivi, oltre quanto istituito dal contratto nazionale. La combinazione di tale elemento con la possibilità che gli incentivi fiscali vengano erogati anche laddove i premi, individuali e/o collettivi, siano unilateralmente decisi dall’impresa può agire da freno alla diffusione della contrattazione di secondo livello piuttosto che da stimolo. L’obiettivo non sembra essere tanto la diffusione della contrattazione decentrata di secondo livello i cui attori sociali sono le rappresentanze dei dipendenti, i dipendenti medesimi, ed i datori di lavoro, quanto la generalizzazione di modalità decentrate di fissazione delle retribuzioni, aggiuntive ma anche sostitutive, se necessario, del contratto di lavoro nazionale, ad escludendum, dove le rappresentanze, e quindi il sindacato, cessano di avere un loro ruolo centrale. L’incentivo rischia di essere non tanto alla contrattazione decentrata, quanto a forme individuali di confronto tra datore di lavoro e singolo dipendente mediante l’elargizione unilaterale di premi individuali.
L’aspetto critico rilevante è rappresentato anche della concezione stessa che sta dietro al legame tra premi e produttività. Infatti, si ripropone uno schema che nella prassi è stato consolidato nella contrattazione aziendale, appunto il legame premi e produttività del lavoro, ma che la prassi stessa ha segnalato per le sue debolezze intrinseche. Quel legame non costituisce un’adesione coerente alla filosofia dell’Accordo di Luglio del 1993, nella misura in cui si perde per strada un aspetto centrale di quell’intesa, ovvero che i premi devono essere introdotti e gestiti in chiave partecipativa superando impostazioni vetuste che rimandano a schemi di produzione fordisti. Il meccanismo di incentivazione si fonda invece su un paradigma del tutto tradizionale di incentivazione dello sforzo lavorativo, o di suddivisione del rischio d’impresa, misurati da indicatori di output fisico e/o sulla base dei valori di alcune voci di bilancio. Sono i noti meccanismi del tipo gain-sharing e profit-sharing, sintetizzabili in strategie output-oriented che mirano a redistrubuire produttività e redditività ex-post (una analoga versione è quella della ability to pay). La quasi totalità delle indagini empiriche condotte dal 1993 in poi ha mostrato i limiti di questo approccio, evidenziando come in tal modo ci si allontani dallo spirito di quel protocollo e si conseguano addirittura risultati modesti in termini di competitività d’impresa ed anche di mera produttività del lavoro e redditività aziendale, lasciando aperta anche la strada a premi “cosmetici”. Negli ultimi anni invece si vuole riproporre un siffatto schema desueto, mediante lo strumento prima dell’incentivo fiscale, ed ora rafforzandolo nell’ambito dell’Accordo Quadro. Anzi questo accordo, per alcuni degli aspetti sopra indicati, sembra addirittura compiere un passo indietro rispetto al protocollo del luglio 1993, equiparando ad esempio gli incentivi fiscali per la contrattazione decentrata agli incentivi fiscali alla distribuzione unilaterale di remunerazione aggiuntiva da parte delle imprese a prescindere dalle vie negoziali, oppure enfatizzando i premi ex-post ed ignorando quelli partecipativi input-oriented.
La questione salariale
Nella valutazione dell’Accordo Quadro non si può trascurare il tema della questione salariale, soprattutto alla luce delle drammatiche inefficienze dell’attuale sistema di contrattazione che alla fine del 2007 vedeva circa due terzi dei lavoratori dipendenti italiani del settore privato con il proprio contratto scaduto.
Per quanto concerne le disposizioni dell’Accordo Quadro in materia di salari due principali punti hanno sollevato critiche da più parti: la quota di salario base (valore punto) su cui calcolare la copertura dall’inflazione e l’indice dei prezzi su cui basare tale copertura.
Per quanto concerne il valore punto si passa da una prassi che computa tale valore sulla base delle retribuzioni di fatto ad una che fonda la computazione sui minimi tabellari, riducendo di fatto la quota di salario base su cui calcolare la copertura dall’inflazione, ed in accordo a “specifiche intese”. In altri termini, come riportato da Boeri e Garibaldi (2009), vi dovrebbe essere una riduzione di cinque punti base della quota di salario coperta, mentre per la Cgil il valore punto basato sui minimi tabellari dovrebbe essere di circa il 10%-30% inferiore rispetto al valore punto attualmente utilizzato.
Considerando il nuovo indice dei prezzi da utilizzarsi per il calcolo del recupero dall’inflazione si nota come si passi dal riferimento al tasso di inflazione programmata (TIP) all’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (IPCA) depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. Al di là del dibattito sull’opportunità di depurare o meno l’indice, ciò che rileva è che la tipologia di indici dei prezzi a cui appartiene l’IPCA ignora il “concetto di inflazione riferita alla frequenza degli acquisti”. Come rilevato dall’Istat i beni ad alta frequenza di acquisto, ovvero beni di consumo quotidiano, mostrano una dinamica inflattiva superire ai beni a media e bassa frequenza d’acquisto e costituiscono il 40% del paniere su cui l’indice dei prezzi al consumo (IPC) viene computato. Nell’ipotesi che i consumatori con reddito medio-basso concentrino la quota maggiore di acquisti su beni ad alta frequenza viene spiegata la percezione e probabilmente la reale mancanza di tenuta del potere d’acquisto dei salari nell’ultimo decennio. In considerazione di ciò l’intero meccanismo di salvaguardia del potere d’acquisto dei salari dovrebbe essere ridisegnato.
In sintesi, il mix dato dall’abbassamento del valore punto su cui calcolare il recupero dall’inflazione e il nuovo indice dei prezzi potrebbe comportare una dinamica delle retribuzioni reali non in linea con l’obiettivo di mantenimento del potere d’acquisto del salario. Il nuovo meccanismo di copertura dall’inflazione implica una performance inferiore rispetto alla attuale prassi, sia in retrospettiva che in previsione.
La crisi e nuove esigenze
Alla luce di quanto sopra riportato il giudizio complessivo sull’Accordo Quadro non può essere positivo. Innanzitutto, non sarà certo l’implementazione di tale Accordo a generare quella riforma del sistema contrattuale da più parti auspicata. L’auspicio già formulato che la politica di concertazione riprenda un cammino con un tasso di innovatività più elevato rispetto al recente passato pare esser stato disatteso ancora una volta. Eppure, esistono proposte come quelle presenti nel documento Per un patto sociale sulla produttività e la competitività che potrebbero costituire un terreno di confronto per tutte le forze sociali, le istituzioni, ed il governo del nostro paese e rappresentare un serio passo in avanti verso politiche che abbiano come obiettivo primario l’aumento della produttività. Oppure, basti ricordare quanto il protocollo di luglio del 1993 “suggeriva” in tema di partecipazione delle forze sociali e sindacali per l’accrescimento della competitività dell’impresa. In definitiva, ciò che attualmente urge è la predisposizione di politiche condivise per il rilancio della produttività al fine di evitare che la torta da spartire tra imprese e lavoratori non si eroda ulteriormente.
Non possiamo non considerare però che a fronte della crisi economica attuale le sfide che si trovano oggi ad affrontare le parti sociali assumono una dimensione ben maggiore. A ben vedere, quel documento a cui hanno aderito così tanti economisti e studiosi di relazioni industriali trova la sua origine in una fase ben diversa, benché scritto solo alcuni anni or sono. Il riferimento di base di quel documento è un altro ben noto documento, di valenza europea, dal titolo Green Paper. Partnership for a New Organisation of Work (Ec, European Commission, 1997). Più di dieci anni sono passati dalla diffusione di queste linee guida della Commissione Europea, valide per tutti gli Stati membri dell’Unione e per tutte le parti sociali ed i governi nazionali. All’epoca, anche i sindacati italiani e le organizzazioni dei datori di lavoro avevano di fronte a loro una importante opportunità, che non hanno voluto o saputo cogliere. Si veniva dall’esperienza di almeno due tornate contrattuali a livello aziendale e nazionale dalla firma dell’accordo del luglio 2003, con le quali le difficoltà di procedere verso modelli di tipo partecipativo erano palesi per tutti. Invece di rilanciare e decidere di giocare la sfida della partecipazione, si è preferito ripiegare le strategie contrattuali verso modelli più tradizionali che sembravano meno impegnativi, ad iniziare dal tema dei salari tenuto separato da quello della organizzazione dell’impresa. Ne è derivata, ovvio non solo per questa ragione (!), un impoverimento dei contenuti della contrattazione aziendale, neppure compensata da una tenuta della contrattazione nazionale. Non crediamo che oggi si possa ritenere che la qualità della contrattazione aziendale, ed anche la sua estensione, sia cresciuta rispetto a dieci anni fa; anzi le poche analisi significative esistenti indicano il contrario. Dieci anni dopo benvenuto sarebbe un ripensamento circa l’occasione persa, e benvenuta sarebbe anche l’intenzione delle parti sociali (e del governo!) di riprendere un dialogo di tipo partecipativo. Sappiamo che ciò rischia di non essere altro che una speranza illusoria. Tuttavia, la necessità di affrontare la crisi attuale richiederebbe proprio questo. E questo non basterebbe in ragione del fatto che le sfide che la crisi impone sono ben maggiori e di più alto livello. Le sfide chiamano in causa il tema della responsabilità sociale dell’impresa tout court (Ce, Commissione Europea, 2001), e questo ci porta ad altri temi ad essa strettamente collegati, quali le disuguaglianze dei redditi, la sostenibilità ambientale, l’economia della conoscenza, tutte questioni da essere declinate su scala globale, piuttosto che solo su scala nazionale.
* Il contributo qui presentato è stato pubblicato nella sua forma completa su Quaderni di Rassegna Sindacale – Lavori, n.2, 2009, Ediesse, Roma, a cui si rimanda anche per le citazioni ed i riferimenti alla letteratura economica (si veda file pdf)
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