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I vincoli manageriali e finanziari alla mega-Fiat. Perché i rischi dell’operazione Fiat-Chrysler-Opel-Vauxall-Saab appaiono più rilevanti dei suoi potenziali benefici
Al momento in cui queste note sono state redatte, non era ancora chiaro come si sarebbero conclusi i tentativi da parte del gruppo dirigente Fiat di prendere il controllo della Chrysler e di una gran parte delle attività europee e sudamericane del gruppo General Motors. Le note, per altro verso, non pretendono di fornire una visione completa della situazione alla data indicata, ma esse cercano soltanto di esplorarne alcuni aspetti. Al centro della riflessione, condotta soltanto a livello tecnico-gestionale, trascurando i pur rilevantissimi aspetti sociali, sono posti alcuni dubbi relativi alla strategia attualmente perseguita da Marchionne, che ci sembra presenti molti –forse troppi- rischi di vario tipo.
I vincoli manageriali alla crescita
Già diversi decenni fa una delle più importanti specialiste di economia industriale, la Penrose, nel domandarsi se esistessero dei vincoli alla crescita delle imprese e quali essi eventualmente fossero, era giunta alla conclusione che il limite di gran lunga più importante fosse costituito dalla capacità di apprendimento dei gruppi dirigenti. In altri termini, le imprese non potevano crescere in maniera troppo sostenuta perché il loro management avrebbe avuto troppe difficoltà nel cercare di governare adeguatamente i cambiamenti. Le capacità di un’organizzazione possono così certamente crescere nel tempo, ma soltanto ad un ritmo relativamente ridotto.
Ora, nel caso della Fiat, ci troviamo in una situazione per alcuni aspetti paragonabile a quella descritta da N. Gogol ne “Le anime morte”. Nel libro il protagonista, Cicikov, percorreva le campagne russe per acquistare a buon mercato, dovunque li trovasse, i diritti di proprietà sui contadini morti; egli ci trovava una convenienza importante, se ricordiamo bene di ordine fiscale. Sulle possibili motivazioni specifiche di Marchionne nel cercare di raccogliere tutto quello che c’è sul mercato si veda invece ai paragrafi seguenti.
Comunque, nel nostro caso, se andassero avanti con successo tutte le ipotesi di acquisizione in questo momento sul tappeto, la Fiat auto aumenterebbe in pochi mesi le sue dimensioni di ben tre-quattro volte; essa si troverebbe a operare in aree geografiche prima sostanzialmente sconosciute, in segmenti di mercato poco praticati, nonché a governare moltissime persone in più e molti più siti produttivi. E questo con un gruppo dirigente certamente giovane e motivato, ma anche relativamente ridotto e poco esperto nella specifica bisogna.
Pensiamo che la Penrose non ne sarebbe affatto contenta.
Nel caso specifico, ci troviamo, tra l’altro, di fronte al caso Chrysler, impresa che è da trent’anni in crisi mentre nessuno è ancora riuscito a domarla. La Daimler Benz in nove anni ci ha perso circa 35 miliardi di dollari. Più in generale, sono rarissimi, nel settore dell’auto, i casi di fusioni-acquisizioni di successo. La più grande impresa del settore, la Toyota, si è sempre rifiutata di associare altre imprese. Il disastroso caso della Daimler che aveva tentato di darsi una presenza mondiale comprando la Chrysler, la Mitsubishi e un’impresa coreana è finito come tutti sanno e sta da monito per i posteri.
E’ noto, per altro verso, che in generale, al di là del settore dell’auto, circa i due terzi dei processi di fusione-acquisizione effettuati nel mondo falliscono, non riuscendo a raggiungere gli obiettivi precedentemente fissati. Molto importanti, a questo proposito, si rivelano ex-post gli scontri di cultura e di approcci organizzativi, nonché le lotte di potere e i malintesi, comunque i problemi di governo di sistemi spesso complessi. Pochi ricordano, a questo proposito, il caso della stessa Fiat, che aveva acquisito molti decenni fa il controllo della Citroen, ma che aveva poi dovuto precipitosamente fare marcia indietro di fronte alle grandi differenze di situazioni esistenti tra le due realtà.
Va anche sottolineato che sino a ieri a chi poneva il problema delle inadeguate dimensioni del gruppo Fiat nell’ affrontare la concorrenza, Marchionne rispondeva affermando che poteva bastare tessere una fitta serie di accordi specifici sui vari fronti con gli altri produttori. Ne era seguito in effetti un numero rilevante di joint-venture. Ora arriva la svolta che contraddice le analisi precedenti e l’affermazione che serve una dimensione di vendite di almeno 5,5-6,0 milioni di vetture all’anno. E’ la crisi che ha cambiato la scena o è stato qualcosa d’altro? La strategia precedente è fallita?
Paradossalmente, in questo momento di grande difficoltà, solo la Fiat sembra agitarsi nella corsa alle acquisizioni. La Peugeot, ad esempio, che quanto a dimensioni è messa solo un po’ meglio della casa torinese, appare silenziosa, mentre anche i giapponesi “minori” e i coreani della Hundai sembrano fermi e mentre infine la Mercedes e la BMW stanno apparentemente pensando solamente a unificare alcune attività, quali in particolare gli acquisti.
I vincoli finanziari alla crescita
Dopo i vincoli manageriali, indubbiamente anche quelli finanziari pesano fortemente in questo caso.
Mentre sul piano economico i profitti del gruppo per il 2008 hanno tenuto abbastanza, riducendosi di poche centinaia di milioni di euro rispetto all’anno precedente - 1,7 miliardi contro 2,0-, sul fronte finanziario i debiti netti della società, che erano di circa 10.4 miliardi di euro alla fine del 2007, sono saliti a 17,9 miliardi alla fine del 2008 ed essi sono ancora aumentati, sia pure di relativamente poco, nei primi tre mesi del 2009.
Il capitale netto della società si collocava alla fine del 2008 in circa 11,1 miliardi di euro, sostanzialmente allo stesso livello rispetto alla fine dell’anno precedente, il che significa che, anche in presenza di una grave crisi e di un forte aumento dell’indebitamento, gli azionisti hanno ottenuto di portarsi a casa quasi tutti i profitti dell’anno precedente.
In questo quadro, lo sforzo finanziario richiesto dall’eventuale acquisizione della Chrysler e della GM dovrebbe essere sostenuto dal governo americano e da quello tedesco, oltre che probabilmente dalla cessione di una quota di capitale alla stessa GM. Ma l’intervento dei governi prenderebbe la forma di prestiti da restituire entro un numero di anni relativamente ridotto.
E se qualcosa andasse nei prossimi anni storto, come appare plausibile, persino molto probabile, in un progetto di tale complessità, in un mercato certamente poco entusiasmante?
Uno dei maggiori sviluppi nella “scienza” manageriale degli ultimi due decenni è certamente quello relativo alla crescente percezione dell’importanza del rischio presente nei grandi progetti, nonché degli strumenti di analisi e di gestione del rischio stesso. Appare ormai, tra l’altro, largamente consolidata l’idea che le cose anche nel mondo delle imprese non andranno quasi mai come esse erano state programmate e che quindi è necessario far fronte al problema in anticipo con strumenti adeguati. Sul fronte specificamente finanziario, così, si è arrivati a teorizzare la necessità di calcolare in anticipo quante riserve strategiche mantenere per far fronte al rischio e all’incertezza dei progetti aziendali.
La Fiat non ha capitali adeguati alla bisogna, non ha nessuna riserva strategica e le eventuali necessità finanziarie derivanti da qualche inevitabile imprevisto da dove potrebbero venire? Non è chiaro.
Bisogna anche ricordare che i soldi non servirebbero soltanto per gestire i problemi del salto dimensionale e dei suoi rischi. E’ in atto nel settore dell’auto un grande salto tecnologico, da una parte per la crescente introduzione delle tecnologie Itc, dall’altra per progettare auto sempre meno inquinanti e risparmiatrici di carburante. Questi sviluppi richiedono anch’essi grandi capitali che la Fiat non possiede, per quanto possa essere rilevante il sostegno di alcune grandi banche e per quanto possano essere importanti i risultati sin qui raggiunti dall’impresa nel settore.
Le difficoltà politiche all’accordo con la General Motors in Germania
Il principale concorrente della Fiat nella corsa all’acquisizione della Opel tedesca è il gruppo Magna, associato ai russi della Gaz e ad una banca dello stesso paese. Apparentemente l’intervento della Fiat, nonostante tutti i dubbi che si possono avere in proposito, appare più credibile, per il semplice fatto che il gruppo rivale ha molta meno esperienza del settore finale dell’auto e delle sue complessità organizzative e di mercato.
Ma il mondo tedesco fa resistenza per due ragioni di tipo sostanzialmente politico.
La prima e forse la più importante è quella legata ai crescenti legami tra la Germania e la Russia. Al di là dell’ipotesi di una progressiva tendenza all’unificazione anche politica, sotto qualche forma, della Russia con l’Europa, con al cuore di tali possibili sviluppi i progressivi legami di amicizia tra i due paesi, resta la realtà di grandi progetti che i due stati stanno portando avanti insieme in maniera molto convinta. Essi toccano in particolare il settore vitale dell’energia –dagli oleodotti al business nucleare-, nonché quello gli scambi commerciali, che stanno facendo della Germania il principale partner della stessa Russia.
Ricordiamo a questo proposito anche la storia relativamente recente. Così, dopo la vittoria della rivoluzione in Russia, il nuovo regime si inspirò sostanzialmente, nel configurare il suo modello di sviluppo industriale, all’esempio tedesco. In particolare, tra l’altro, lo sviluppo dei grandi kombinat fu in qualche modo adattato dall’esempio dei konzern dell’altro paese.
Inoltre nei confronti dell’Italia è evidente una certa prudenza, se non proprio una repulsione. Si sottolinea da parte tedesca la fragilità della situazione finanziaria del gruppo italiano. Non manca poi, tra l’altro, in una parte almeno dell’ambiente politico e sindacale, una rilevante repulsione per la situazione politica attuale del nostro paese.
Tutto questo non impedisce del tutto un accordo, ma pone forti ostacoli verso di esso.
E lasciamo da parte le ulteriori complicazioni possibili per quanto riguarda gli altri insediamenti GM in altri pesi europei.
Le difficoltà finanziarie dell’accordo con la General Motors in America Latina e il problema del controllo del gruppo
Nel far fronte al nuovo possibile quadro del gruppo con tutte le acquisizioni possibili, si è ventilata la concreta possibilità che le attività dell’auto siano scorporate e costituite in una società indipendente. Si è parlato così della eventualità che la famiglia Agnelli, mentre manterrebbe il controllo delle attività restanti, dai veicoli industriali alla componentistica, alle macchine movimento terra, ai trattori, potrebbe invece perdere il controllo dell’ auto, attività quest’ultima nella quale la famiglia manterrebbe all’incirca soltanto il 10% del capitale complessivo. Contemporaneamente, sui giornali si discute della possibilità che la GM, nell’eventualità della cessione delle sue attività in America Latina, ottenga in contropartita una quota del capitale che per la casa dell’auto statunitense si dovrebbe aggirare intorno al 30-40% del totale e che per Marchionne si dovrebbe limitare invece al 10-20%.
Cosa pensare di tali possibili sviluppi? Essi pongono diversi possibili interrogativi.
1) La Fiat senza la Fiat. Ha veramente senso staccare l’auto dal resto delle attività del gruppo? Gli Agnelli alla fine resterebbero con la componentistica, con i veicoli industriali, con i trattori e con le macchine movimento terra. Ma a questo punto ci si troverebbe di fronte ad un portafoglio di business senza grande logica strategica, almeno di tipo industriale. Per di più, in questo momento la componentistica, i veicoli industriali e le macchine movimento terra sono in rilevante difficoltà di mercato. Tali business soffrono poi, tra l’altro, per non aver raggiunto sufficienti dimensioni competitive. Solo i trattori sembrano andare abbastanza bene ed avere raggiunto una certa massa critica di produzione.
2) Il capitalismo familiare. Non è vero, come affermato di recente ad esempio da G. Turani, che il capitalismo familiare resiste solo in Italia –forse l’affermazione del giornalista significa semplicemente che è meglio che gli Agnelli si tolgano dai piedi. In realtà, semmai, negli ultimi anni, mentre nei paesi anglosassoni, sotto i colpi degli investitori istituzionali, entrava in crisi il modello di capitalismo manageriale puro, quello di tipo familiare acquistava nuova vita negli stessi Stati Uniti, in particolare, ma non solo, nel settore delle nuove tecnologie, mentre esso appare essere al centro del sistema delle imprese nei grandi e piccoli paesi di nuova industrializzazione, insieme al capitalismo di stato, con cui a volte si confonde e mentre in Europa non sembra avere perso molti colpi nell’ultimo periodo.
Nel settore dell’auto gli esempi di controllo familiare sono parecchi, dalla Peugeot alla BMV e in parte anche alla Ford e alla Toyota.
3) I soldi. Indubbiamente, peraltro, nel caso specifico della Fiat, potrebbero servire molti soldi, nei prossimi anni, per sostenere il gruppo eventualmente allargato nei prossimi anni. Ma appare paradossale che nel nuovo assetto il gruppo dirigente della GM, che ha dimostrato senza ombra di dubbio negli ultimi trenta-quaranta anni come non si gestisce assolutamente un’impresa dell’auto, acquisisca una percentuale del capitale almeno di maggioranza relativa. Quello che appare certo è che invece otterrebbe una sostanziale libertà decisionale la stesso Marchionne ed è questa una delle ragioni principali forse per cui egli insiste nell’acquisizione anche delle attività in America Latina.
Non è chiaro, peraltro, quanti soldi potrebbe eventualmente mettere nella nuova Fiat la stessa famiglia Agnelli e se essa comunque potrebbe avere voglia di farlo. Dei soldi potrebbero venire dal mercato, forse fiducioso nelle capacità dell’attuale amministratore delegato, magnificate negli ultimi mesi dai media di tutto il mondo.
Conclusioni
Alla fine i dubbi, le incertezze, i rischi dell’operazione Fiat-Chrysler-Opel-Vauxall-Saab appaiono molto rilevanti. Per cercare di capire perché essa venga comunque portata avanti con decisione si può pensare o che la società sia con l’acqua alla gola sul piano economico e finanziario e/o che a questo punto Marchionne si stia lasciando trascinare dalle proprie ambizioni personali a diventare il vero padrone di un grande impero –in teoria il secondo gruppo come dimensioni del settore-, sottovalutando gli enormi rischi che sembrano gravare sull’operazione.
La sostanziale ed ormai possibile scomparsa dalla scena del capitalismo italiano della famiglia Agnelli, che è stata il suo pilastro per molti decenni, sta lasciando il posto a qualcosa di ancora più pericoloso e totalizzante - al di là dei momenti peggiori della gestione di V. Valletta dopo la guerra-, alla famiglia Berlusconi, che estende ormai le sue ramificazioni economiche in moltissime direzioni e sotto varie forme, da Mediobanca alle Generali, dalla Telecom Italia all’Alitalia e chissà a cosa d’altro nel prossimo futuro.
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