Home / Newsletter / Newsletter n. 24 / Shopping cinese in mezzo mondo

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Newsletter

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Shopping cinese in mezzo mondo

26/02/2009

I capitali di cui dispone la Cina fanno gola al mondo occidentale in default. Ma gli investimenti cinesi all'estero adesso prendono altre strade

Attraverso la crisi si vanno delineando nel mondo delle nuove tendenze economiche, sociali e politiche che appare importante cercare di individuare ed analizzare.
E’ così possibile che le difficoltà in atto accelerino la tendenza al passaggio del centro delle attività economiche del mondo dall’occidente all’Asia. In questo quadro, concentriamo oggi la nostra attenzione soprattutto su alcuni sviluppi recenti che riguardano la Cina; ma faremo qualche accenno anche alla Russia e ai paesi del Medio Oriente.
In un momento in cui il modo occidentale è alla disperata ricerca di capitali, pensare che nel paese asiatico esiste presso la banca centrale e nei suoi dintorni una riserva di 2 trilioni di dollari –e che peraltro ce ne sia un’altra di almeno 1 trilione in Giappone, oltre a 450 miliardi in Russia e ad altri cumuli di denaro nei paesi arabi - suscita ovviamente un grande interesse e certamente qualche appetito. Sembrano essere, tra l’altro, in gran parte ormai cadute nel dimenticatoio le riserve e i dubbi avanzati in un recente passato in occidente da uomini politici, economisti, istituzioni varie, verso la creazione dei fondi sovrani da parte dei paesi emergenti, che erano sino a pochissimo tempo fa prevalentemente visti come una potenziale minaccia ai paesi occidentali e al loro sistema industriale.
In che direzione andrà nel futuro l’impiego di tali risorse? Continueranno esse e quanto ad essere utilizzate prevalentemente nell’acquisto di titoli di stato ed assimilati negli Stati Uniti, o esse prenderanno strade diverse, quali quella dello sviluppo del mercato domestico e quella dell’investimento in attività industriali e finanziarie del resto del mondo?
Il grande piano di sostegno all’economia, da circa 800 miliardi di dollari, varato di recente dal governo cinese – e il cui ammontare rappresenta all’incirca il 14% del pil del paese per il 2008- intacca abbastanza marginalmente le riserve della banca centrale, dal momento che esso dovrebbe essere finanziato per i due terzi dal sistema bancario ordinario; altri programmi di contrasto alla crisi stanno peraltro vedendo la luce in queste settimane, ma su di essi non si hanno però notizie precise, in particolare per quanto riguarda la loro dimensione finanziaria.
Il programma di acquisto di titoli di stato statunitensi sembra per il momento continuare, anche se esso appare affidato in prospettiva al tipo di eventuali accordi più generali che i due paesi riusciranno a trovare in un prossimo futuro. I dati disponibili per gli ultimi mesi, anche se ancora forse poco rappresentativi di un qualche mutamento di tendenza, mostrano che sia la Cina, che il Giappone ed i paesi arabi, stanno perseverando nell’acquisto di buoni del tesoro statunitensi, anche se a livelli apparentemente più ridotti di prima. Peseranno indubbiamente sulla situazione le minori nuove entrate di valuta che questi paesi stanno già registrando a ragione della crisi.
Ma la tendenza nuova che sembra delinearsi con chiarezza nell’ultimo periodo per quanto riguarda la Cina ha a che fare con la forte crescita degli investimenti all’estero, in particolare nel settore energetico ed in quello delle materie prime. Si tratta di uno sbocco importante, quasi obbligato, che, se da una parte appare una mossa strategica necessaria per lo sviluppo ulteriore del paese asiatico, una spinta cioè motivata da esclusivi interessi interni, dall’altra può essere però l’occasione per contribuire ad alleviare il morso della crisi mondiale e ad aiutare in specifico a risolvere i problemi finanziari di diversi paesi e di molte imprese. Più in generale, il riciclaggio di una parte almeno delle grandi riserve di liquidità dei paesi asiatici e comunque anche di quelle delle imprese di altri paesi emergenti verso l’investimento negli altri paesi del mondo appare come una strada ormai quasi imprescindibile per un nuovo e più stabile assetto economico del pianeta.
La crisi delle esportazioni verso i paesi occidentali sta anche spingendo diversi paesi asiatici, con in testa Cina e Giappone, secondo segni che si cominciano a percepire e che sono però ancora allo stato embrionale, a concentrare una parte importante dei loro sforzi verso lo sviluppo economico dell’Asia orientale. Questa sarà probabilmente un aspetto rilevante del quadro economico mondiale dei prossimi anni.
Mentre la Cina mette comunque le mani su risorse vitali per il suo sviluppo, essa sembra anche indicare la possibilità più generale di una maggiore interconnessione tra di loro delle economie dei paesi emergenti, aprendo dei canali diretti che in parte cortocircuitano i paesi del nord del mondo e le sue istituzioni finanziarie.
Gli accordi di cui parliamo accentuano peraltro delle spinte che si stavano delineando già da qualche anno, ma che oggi sembrano acquistare una dimensione del tutto inedita.
Consideriamo che, ad esempio, quello degli investimenti all’estero è per la Cina un fenomeno molto recente. Il loro livello è stato soltanto di 2,9 miliardi di dollari ancora nel 2003 ed è salito però intorno ai 20 miliardi per ognuno degli anni 2006 e 2007. Sin dall’inizio il fenomeno tende a riguardare in maniera prioritaria il settore minerario e delle fonti energetiche. Su questo fronte la ricerca da parte cinese di accordi ha raggiunto livelli quasi febbrili dovunque fosse possibile, in America Latina, Africa, Asia.
Tale movimento sta di recente accelerando. Per quanto riguarda il 2008 facciamo riferimento ad alcuni accordi con dei paesi africani ed in particolare a quello con la repubblica del Congo per un intervento complessivo per 9 miliardi di dollari.
Secondo l’accordo firmato tra le autorità cinesi e quelle del paese africano lo scorso anno, un consorzio di imprese pubbliche del paese asiatico costruirà nel paese africano strade, ferrovie, ospedali e università in cambio del diritto di sfruttamento su di una grande miniera di rame e di cobalto del paese.
Ma ora (Jopson, 2009, a) il Fondo Monetario Internazionale - ancora oggi preso dal suo tradizionale ruolo di gendarme dei paesi ricchi, nonostante che alla sua testa ci sia ora un socialista francese-, che dovrebbe approvare la ristrutturazione di un debito da 11 miliardi di dollari che il paese africano ha con l’occidente, nonché un piano di aiuti da parte di alcune istituzioni sempre occidentali, sta cercando di opporsi con argomenti almeno in parte pretestuosi a tale accordo con i cinesi e chiede dei cambiamenti significativi nelle sue clausole. Naturalmente non importa affatto che a suo tempo i prestiti al Congo siano stati concessi al dittatore Mobutu e che essi servivano quasi esclusivamente ad ingraziarsi il sanguinario dittatore –che infatti, come tutti potevano immaginare, ha rubato gran parte della somma spendendola in Svizzera ed in altri paesi compiacenti - e non certo allo sviluppo economico del paese.
Ma, a proposito delle attività cinesi in Congo, i giornali (si veda Jopson, 2009, b) forniscono delle notizie che mostrano nella sostanza come i cinesi alla fine non si comportino in maniera molto diversa dagli occidentali. Nel paese negli ultimi anni erano state aperte, ad opera di piccoli imprenditori cinesi, una quarantina di fonderie per il trattamento del minerale di ferro. Con l’arrivo della crisi e il crollo dei prezzi del prodotto tali imprenditori hanno pensato bene di abbandonare gli impianti; così circa il 90% di essi sono partiti nottetempo, senza pagare i salari e le tasse arretrati. Anche l’ambasciatore cinese, oltre che le autorità del paese africano, appaiono sconcertati.
Le vicende congolesi mettono comunque in evidenza le difficoltà che anche i nuovi padroni stano incontrando nella loro espansione mondiale.
Ma il 2009, con l’aggravarsi della crisi, vede comunque una forte accelerazione del fenomeno dell’espansione all’estero. Così, in poche settimane, la Cina ha posto la sua firma su tre grandi progetti in tre paesi diversi:
1) con il Venezuela è stato sottoscritto un accordo per un prestito al paese latinoamericano di 6 miliardi di dollari in cambio un incremento nelle esportazioni di petrolio al paese asiatico; tale prestito si aggiunge a precedenti accordi che portano il totale degli impegni cinesi a 12 miliardi;
2) con il Brasile un accordo sostanzialmente analogo, che vede lo scambio di prestiti contro petrolio, si aggira intorno ai 10 miliardi di dollari;
3) con la Russia, infine, l’importo di un altro accordo è di circa 25 miliardi di dollari; anche in questo caso si tratta di uno scambio di prestiti ed investimenti nel settore energetico contro la fornitura di petrolio.
Inoltre, il più grande produttore di alluminio del paese di mezzo ha accettato di investire 19,5 miliardi di dollari in una delle più importanti società minerarie del mondo, l’australiana Rio Tinto, aumentando, tra l’altro, la sua quota nel capitale della società sino al 18% del totale. Inoltre, un’altra società cinese sta cercando di acquistare per 1,7 miliardi di dollari una impresa mineraria del paese, questa volta nel settore dello zinco. Infine una terza società del posto è in trattative con una società cinese per varare un grande progetto di espansione degli investimenti (Barboza, 2009) (Smith, 2009).
Immaginiamo che gli accordi accennati non rimarranno circoscritti e che i prossimi mesi vedranno diversi nuovi annunci più o meno dello stesso tipo. Tanto più che la stampa del paese annuncia ( http://www.chinadaily.com.cn, 2009 ) la creazione di un fondo governativo per lo sviluppo del settore del petrolio e del gas; il fondo dovrebbe fornire prestiti a basso tasso di interesse e iniezioni dirette di capitale alle imprese nazionali che abbiano dei progetti di acquisizione di attività all’estero. Attualmente il paese dipende per il 55% del totale del consumo nazionale di petrolio dalle forniture estere e tale percentuale dovrebbe crescere nel tempo.
Per quanto riguarda la Russia, il fenomeno dei movimenti finanziari appare certamente di dimensioni minori, ma comunque significative; ma esso non ha i caratteri della motivazione prevalentemente economica, come nel caso precedente, ma quelli della spinta politica. Se è vero che la Russia possiede riserve valutarie più limitate di quelle cinesi e comunque con la necessità di utilizzarne gran parte per far fronte agli attuali rilevanti problemi interni, qualcosa resta comunque a disposizione. Le risorse residue vengono ora utilizzate soprattutto al fine di consolidare ed estendere i rapporti con le ex repubbliche sovietiche, che la Russia considera ancora come il cortile di casa. Così la Bielorussia ha ricevuto un prestito di 1,5 miliardi di euro per contribuire a tamponare le sue molto precarie condizioni finanziarie, mentre essa continuerà a pagare le forniture di energia a prezzi di favore; in cambio il paese sembra accettare di portare avanti, almeno in parte, il progetto di una fusione politico-militare con il grande fratello. Intanto il Kirgizistan, anch’esso in difficoltà, ha ricevuto dalla Russia un pacchetto di aiuti, sotto forma di prestiti e di investimenti nel settore energetico, per 2 miliardi di dollari, mentre gli vengono cancellati i debiti preesistenti. Parallelamente, il presidente kirghizo ha annunciato la chiusura della base militare americana di Manas, fondamentale per lo svolgimento delle operazioni belliche in Afghanistan (Jégo, 2009).
Infine, anche i paesi del Golfo Persico stanno nell’ultimo periodo investendo molti soldi nei paesi emergenti, in particolare nell’Africa sub-sahariana (Coker, 2009), un’area che continua in qualche modo a crescere nonostante la crisi e contemporaneamente ad essere invece trascurata dai paesi occidentali. Gli investitori arabi sono interessati ai settori dei porti, dell’agricoltura, delle telecomunicazioni, delle miniere e dell’energia, della finanza. Si va quindi in qualche modo sviluppando una qualche rivalità con la Cina, il paese protagonista delle maggiori novità imprenditoriali degli ultimi anni nell’area.
I casi indicati, alla fine, mostrano come i paesi in senso lato emergenti tendano ormai a cominciare a fare a meno dei circuiti finanziari, tecnologici, produttivi, di mercato, occidentali e a trovare al loro interno tutte le energie necessarie per andare avanti. Si tratta di una tendenza da seguire con molta attenzione.
Testi citati nell’articolo
- Barboza D., China starts investing globally, The New York Times, 21 febbraio 2009
- China Daily, oil firms set to cash in on forex surplus, HYPERLINK "http://www.chinadaily.com.cn" www.chinadaily.com.cn, 21 febbraio 2009
-Coker M., Gulf states bet on Africa, The Wall Street Journal, 23 febbraio 2009
- Jégo M., Mosca riprende i suoi vassalli, La Stampa, 21 febbraio 2009
- Jopson B., Donors presse Congo over $9bn China deal, HYPERLINK "http://www.ft.com" www.ft.com, 9 febbraio 2009, a
- Jopson B., Chinese copper entrepreneurs flee, The Financial Times, 20 febbraio 2009, b
- Smith P., China steel group talks to Fortescue of Australia, The Financial Times, 20 febbraio 2009

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti