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Salari e contratti, perché difendo l'accordo
Una scelta che segna una svolta verso il sindacato partecipativo, e sposta il baricentro della contrattazione. Una replica dalla Cisl a Stefano Fassina
L’accordo del 22 gennaio ha stimolato – come era prevedibile – una ridda di commenti e prese di posizione di vario genere. Possiamo, intanto, considerare come positivo il fatto che ci sia tanta attenzione verso un accordo che ha impegnato, in primis, praticamente tutte le parti sociali del paese e, in istanza finale, anche il governo nella doppia veste: di datore di lavoro e di soggetto istituzionale garante e titolare degli interventi legislativi necessari.
Tra i vari commenti rileviamo un articolo di Stefano Fassina, apparso su old.sbilanciamoci.info, dal titolo Salari e contratti, un accordo sbagliato. L’ articolista esordisce dichiarando di voler togliere di mezzo “comode e strumentali semplificazioni”, riferendosi ai temi del sindacato partecipativo e dell’autonomia tra partiti e sindacati. E così facendo è proprio lui a fare una prima macroscopica semplificazione: come se un sindacato partecipativo, piuttosto che conflittuale (o autonomo piuttosto che collaterale ai partiti) fosse un tema trascurabile.
Ed infatti, prima ancora del merito (che comunque non mi esimo dal trattare) la questione principale del ruolo del sindacato in una società moderna sta proprio qui: riesce il sindacato ad esprimere una propria soggettualità, capacità propositiva e di relazione indipendentemente dal colore politico del governo di turno? L’uso dello sciopero (e del conflitto in genere) è utile in una chiave esclusivamente “contro” e di scontro politico? O non è proprio questo il modo di semplificare le questioni sottraendosi dal confronto di merito perché tanto “quelli” sono cattivi e da contrastare.
Il metodo più classico (e sempre valido) di valutare i risultati delle trattative sindacali è quello di confrontare l’accordo con la piattaforma. Se partiamo da li è facile per tutti verificare che l’accordo ha portato a casa buona parte della piattaforma sindacale. Una piattaforma, va sottolineato, profondamente unitaria: elaborata da un gruppo di lavoro Cgil-Cisl-Uil, passata al vaglio dei rispettivi organismi e votata dai direttivi unitari con un solo voto contrario.
Nel merito.
“L’allentamento di maglie” del contratto nazionale è funzionale ad un ricentramento del baricentro della contrattazione, in cui il secondo livello è da valorizzare.
Ma in questa visione il contratto nazionale si modernizza e si rafforza, perché diviene centro regolatore del sistema di relazioni a livello settoriale ed acquisisce ruolo esplicito su materie di grande rilevanza come quelle del welfare contrattuale e della bilateralità.
“Gli effetti sulla produttività possono essere solo modesti”: preveggenza?
L’accordo ha proprio l’intento di legare la valorizzazione del lavoro alla competitività delle imprese. E questo è proprio figlio di una “bieca” visione partecipativa: immaginare che capitale e lavoro, pur avendo interessi diversi, possano individuare e perseguire obiettivi comuni. Obiettivi (comunemente individuati e condivisi) che non sono solo di produttività, ma di qualità, efficienza, efficacia, qualità (proprio come si richiedeva nella piattaforma unitaria).
Legare una parte del salario ad obiettivi di questa natura significa affermare (in concreto) che qualità del lavoro e qualità dei prodotti e dei servizi sono facce della stessa medaglia. Significa proprio superare la concezione della competitività legata solo alla riduzione dei costi, collegandola, piuttosto, alla qualità e, quindi, a politiche industriali all’ insegna dell’ innovazione e della ricerca.
Giusto quindi (perché finalizzato) prevedere un sostegno alla diffusione del secondo livello di contrattazione attraverso sgravi fiscali e contributivi.
Come si fa a dire a priori che gli effetti “ possono essere soltanto modesti”? L’esigenza di estendere la contrattazione di secondo livello è stata condivisa da tutte le parti firmatarie dell’ accordo e sono stati anche individuati gli strumenti di sostegno. Si tratta ora di sviluppare la contrattazione (che – come è noto - non si svolgerà mai per decreto, ma per opportunità o convenienza) utilizzando gli strumenti individuati. Va, inoltre, rimarcato che in vigenza dell’ accordo del 23 luglio 1993 l’effettuazione della contrattazione di secondo livello ha avuto negli ultimi anni un vistoso calo (vedi studio CNEL): forse era ora di cambiare!
L’accordo ha, del resto, carattere sperimentale e sarà sottoposto a verifica dopo il primo ciclo contrattuale proprio per valutarne le necessità di modifica.
C’è poi il tema dell’IPCA (l’indice armonizzato europeo in luogo dell’ inflazione programmata). Come non cogliere la positività del passaggio da un indice di tipo politico (interpretabile dai vari governi) ad uno di tipo tecnico (e quindi difficilmente manomettibile)? L’IPCA è, inoltre, più realistico, più sensibile e confrontabile nella dimensione europea. L’articolista ha ben colto il senso dell’esclusione dell’inflazione importata - con riferimento ai prodotti energetici – per evitare di rendere strutturali bolle inflazioniste e speculative di carattere contingente (come il veloce e profondo cambiamento dei prezzi del petrolio ha confermato).
Va, inoltre, notato che questo riferimento non è nuovo di questo accordo, ma era già presente in quello del 23 luglio 1993.
Gli enti bilaterali “spesso in linea con le peggiori pratiche della Pubblica Amministrazione". Non so a quali enti bilaterali faccia riferimento Fassina. Sta di fatto che attraverso gli enti bilaterali in molti settori, sindacato ed imprese gestiscono importanti attività, prestazioni e servizi per i lavoratori e le aziende: formazione, studio, ricerca, sostegno al reddito, previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa ecc.
La bilateralità è un prodotto della contrattazione (che resta l'architrave dei sistemi di relazioni industriali) ma spinge oltre le responsabilità e gli impegni comuni delle parti sociali, in termini sia sostanziali che formali.
Certo, se non si considera un’evoluzione del sindacato in chiave partecipativa è consequenziale non concepire gli enti bilaterali (che della partecipazione sono l’espressione più concreta). E ancora: da quando categoriale è sinonimo di corporativo? Il “welfare liberal-democratico” è solo “universalistico”? La storia sembra insegnare il contrario!
Sulle conseguenze più “aritmetiche” dell’accordo va rilevato che l’IPCA tutela le retribuzioni meglio dell’ inflazione programmata (ed esiste comunque un meccanismo di recupero sullo scarto tra inflazione prevista e reale).
La strumentazione prevista favorisce l’ampliamento della contrattazione di secondo livello e, quindi, maggiori opportunità salariali per i lavoratori e salario “più pesante” in virtù degli sgravi.
E’, inoltre, previsto un elemento salariale di garanzia per le realtà dove non si realizza contrattazione salariale di secondo livello: un fattore di novità che esisteva solo in pochi contratti nazionali.
In conclusione, torno a rilevare che la cosa più importante che l’ articolo di Fassina non coglie è proprio il nesso stretto tra politiche contrattuali e politiche generali: fiscali, industriali, per la competitività e lo sviluppo in generale, con l’ attribuzione di un ruolo strategico al lavoro.
Una volta accordi come questi venivano definiti “accordi sul costo del lavoro”. Si è percorsa una strada diversa, anche dal punto di vista culturale, affermando che il lavoro è una risorsa (da valorizzare) prima che un costo (da comprimere). Non ci sono spostamenti di quote della retribuzione dal primo al secondo livello, perché i due livelli contrattuali fanno “mestieri” diversi.
L’ accordo – in quanto intesa quadro – non può esaurire tutte le tematiche e prevede, infatti, un rinvio agli accordi di categoria, che potranno individuare soluzioni mirate alle diverse caratteristiche dei settori.
Si è cercato, ancora con maggiore chiarezza, di ammodernare non la contrattazione, ma il sistema contrattuale, individuando, nel modo più razionale possibile i compiti e le titolarità per ogni livello del sistema di relazioni.
Se vogliamo cogliere una lacuna di questo sistema (peraltro non individuata da Fassina) potremmo dire che non ha un sufficiente respiro europeo ed internazionale: l’internazionalizzazione dell’ economia richiede, a nostro avviso, una parallela internazionalizzazione delle relazioni industriali per non restare a valle dei processi dell’ economia globale e delle strategie d’ impresa.
Come Cisl ci stiamo lavorando, ma un po’ in solitudine.
Una notazione finale: immaginare che le risorse pubbliche destinate a sostenere il secondo livello di contrattazione siano inefficaci mi sembra addirittura offensivo nei confronti del lavoro: questo si vuol dire “svalutare” il lavoro.
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