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Le bische dove si gioca con i soldi degli altri
La rapida ascesa e la repentina caduta degli hedge fund e dei fondi di private equity. Come sono entrati in crisi, cosa possiamo farne adesso
Il boom della finanza degli ultimi quindici anni aveva trovato le sue manifestazioni apparentemente più brillanti in due nuove categorie di investitori istituzionali, gli hedge fund e i fondi di private equity.
Questo organismi sono stati al centro dello sviluppo impetuoso dei mercati finanziari, rappresentandone anzi la sua punta avanzata e quasi simbolica. Tale è stato il successo della formula, in particolare negli ultimi anni, che si può anzi dire che le stesse banche tradizionali, i fondi pensione, i fondi comuni, le fondazioni universitarie, si stavano nella sostanza tutti trasformando in degli hedge fund, cioè sostanzialmente in delle bische, con l’aggravante che essi giocavano con i soldi degli altri.
Le remunerazioni degli operatori del comparto erano persino molto più elevate di quelle riscontrabili nel campo delle investment bank – esse si misuravano, in alcuni casi, persino in miliardi di dollari all’anno- e il prestigio di tali strutture registrabile negli ambienti finanziari o presso i giovani laureati di Princeton o di Yale ancora più sostenuto.
Come la loro crescita è stata molto rapida ed importante, così la crisi sta ora mettendo a dura prova la stessa sopravvivenza dei due settori.
Tutto sta cambiando in fretta e un simbolo certamente indicativo dello stato delle cose è rappresentato dal suicidio, avvenuto nel dicembre 2008 a New York, del manager di un importante hedge fund, in relazione alle perdite subite con lo scoppio dello scandalo Madoff, che tali strutture avevano contribuito ad alimentare. Un altro ancora prende le sembianze di un manager di hedge fund della Florida, A. G. Nadel, che nel gennaio 2009 è scappato con la cassa – “appena” peraltro 350 milioni di dollari.
Gli hedge fund
Gli hedge fund sono, nella sostanza, dei fondi di investimento a carattere privato; si può parlare di associazioni di scommessa per persone molto ricche. Nelle loro manifestazioni più avanzate essi sono diventati degli investitori “puri”, la manifestazione più aggiornata di un capitalismo finanziario senza vincoli operativi di alcun tipo, né di settore, né geografici e senza legami con attività industriali o di servizio di qualche sorta. Così ci sono, nel comparto, casi di scommesse anche sulle previsioni metereologiche.
Essi sono gestiti da un ristretto gruppo di operatori, cui un certo numero di investitori –usualmente meno di un centinaio per ogni fondo- affida somme rilevanti da far fruttare. I fondi sono regolati e tassati in modo molto leggero nella gran parte dei paesi del mondo, a parte il fatto che molti di essi sono domiciliati in dei paradisi fiscali. Essi, di solito, utilizzano un rilevante livello di indebitamento per aumentare i rendimenti – ciò che implica il fatto che le loro perdite, come i loro guadagni, possono essere molto amplificati rispetto alle risorse impiegate dagli stessi investitori-, mentre impiegano anche in misura molto importante gli strumenti derivati.
Si tratta peraltro di investimenti poco liquidi – si può in effetti uscire da un fondo solo con una certa difficoltà-, mentre la grande percentuale di commissioni sui guadagni contabilizzati, anche se non ancora realizzati, richiesta agli investitori può assorbire una parte consistente degli stessi utili.
Va sottolineato il collegamento che si instaura tra tali fondi e gli altri settori del mercato finanziario; essi sono stati, sino a non molto tempo fa, finanziati dalle banche, in particolare da quelle di investimento, mentre i due tipi di organismi hanno sviluppato la tendenza ad avviare insieme delle attività e mentre le stesse banche hanno teso a mettere in campo direttamente, a loro volta, dei fondi di questo genere.
Secondo alcune delle fonti più attendibili –il settore è in generale poco trasparente e rilascia poche informazioni su se stesso-, il comparto è cresciuto dai 39 miliardi di dollari di attività del 1990 ai 2 trilioni dei primi mesi del 2008. Nei soli Stati Uniti si contavano nel 2006 ben 8800 hedge fund e circa 10.000 considerando il resto del mondo.
L’aspettativa di guadagni molto elevati nel settore ha spinto anche delle istituzioni, come i fondi pensione o le fondazioni universitarie, che dovrebbero gestire le risorse molto prudentemente, ad imbarcarsi nell’avventura. Così, ad esempio, i media hanno glorificato per anni la fondazione dell’Università di Harvard e i suoi alti proventi ottenuti nel settore finanziario; ma essa ora, con la crisi, ha perso 8 miliardi di dollari in un colpo solo e altri dovrebbe perderne nei prossimi mesi. Di conseguenza, una quota crescente dei soldi delle persone comuni collocate nei fondi pensione e di quelli dei fondi universitari è stata nella sostanza impiegata sui tavoli da gioco. E i regolatori e i controllori hanno fatto causa comune con la nuova spericolata finanza, fingendo di non accorgersi di niente.
Peraltro, i dati relativi ai guadagni dei fondi negli ultimi dieci anni mostrano una situazione molto articolata, con risultati molto differenti da caso a caso e comunque con una tendenza alla diminuzione nel tempo, sino al tracollo attuale. Alcuni sono riusciti almeno sino a ieri a guadagnare degli importi rilevanti, molti altri hanno perso molto. Non si trattava certo di una formula miracolistica.
Ora la crisi sta drammaticamente colpendo il settore. Si prevede che le dimensioni complessive del comparto si possano ridurre più o meno della metà -in parte a causa delle perdite, in parte invece per i riscatti richiesti da parte dei depositanti che premono per ritirare i loro soldi. Comunque i fondi sono obbligati a vendere grandi volumi di titoli per far fronte almeno ad una parte dei riscatti e questo contribuisce a ridurre i valori di borsa degli stessi titoli. Questo ci ricorda che tali strutture operano attraverso un squilibrio finanziario strutturale: i fondi che raccolgono sono di norma a breve termine, mentre una parte molto consistente degli impieghi è spesso a medio-lungo termine. I giornali segnalano, nelle ultime settimane del 2008 e nelle prime del 2009, come i fallimenti di organizzazioni di questo tipo stiano ormai raggiungendo dei livelli record. In ogni caso, due fondi su tre hanno perso soldi nell’esercizio 2008, con una media del 29% sul capitale, mentre le banche hanno tagliato drasticamente i loro finanziamenti al settore (Story, 2009).
I fondi di private equity
Per quanto riguarda i fondi di private equity, il successo di questa nuovo tipo di struttura finanziaria fa anch’esso parte di una tendenza all’affermazione di “una nuova forma di capitalismo, ancora più brutale e dominatore” (Ramonet, 2007). Il fenomeno è esploso progressivamente, sino a raggiungere negli ultimi anni dimensioni veramente impressionanti. Nella maggior parte dei casi una persona o un numero limitato di persone raccolgono del capitale da un gruppo di investitori fondando una struttura che in genere ha una durata di una decina di anni ed è in sostanza un fondo chiuso di investimento.
Le operazioni che vengono avviate vengono finanziate con una parte di capitale e tre-quattro parti di indebitamento. I fondi di private equity prendono una quota di controllo nel capitale di singole imprese, mentre le risorse investite vengono poi recuperate vendendo successivamente l’impresa acquisita, in genere dopo pochi anni. L’attività può generare dei guadagni per gli iniziatori, come è noto, attraverso il carico periodico di una management fee ( commissione di gestione) e di altre commissioni sul capitale investito e soprattutto attraverso i cosidetti carried interests, una forma di profitto che si ottiene quando vengono raggiunti gli obiettivi di redditività di tutto il fondo. In generale,dopo che il fondo ha restituito agli investitori il capitale a suo tempo versato, i profitti vengono divisi in modo che l’80% vada agli investitori e il 20% ai promotori.
Sono stati fatti molti tentativi per misurare i rendimenti dei fondi ed essi sembrano in realtà mediamente abbastanza deludenti. Le ricerche fatte sull’argomento tendono a mostrare che i risultati per gli investitori sono in media poco interessanti e si collocano ad esempio negli Stati Uniti a livelli inferiori a quelli dell’indice Standard e Poor’s (Comito, 2007). Peraltro, di frequente essi sono stati ottenuti attraverso manipolazioni contabili e finanziarie o la crescita complessiva delle borse, non attraverso le capacità di gestione operativa delle imprese acquisite. Una recente indagine (Arnold, 2009) relativa ai fondi britannici mostra che più del 50% dei profitti complessivi riscontrabili nelle loro operazioni recenti derivano dall’incremento dei livelli di indebitamento, circa un terzo dall’andamento generale dei prezzi di borsa e solo il resto dal miglioramento nei risultati gestionali delle imprese.
Nonostante questi modesti rendimenti medi, diversi gruppi di private equity hanno comunque registrato ritorni di tutto rilievo.
Come nel caso degli hedge fund, non solamente i responsabili finanziari che gestiscono tali fondi guadagnano delle somme stratosferiche, ma essi pagano anche in genere molto poche imposte.
Ma ora comunque anche tali strutture sono in ritirata, più o meno disordinata. Nei primi nove mesi del 2008 il valore delle società possedute dai fondi è caduto del 50% e diverse imprese acquisite, così come molti fondi, sono falliti. Gli investitori hanno ritirato circa 320 miliardi di dollari dal settore nel 2008. E’ anche presente la situazione delle cosiddette imprese “zombie”, società comprate con un alto livello di debiti poco prima dello scoppio della crisi e che ora valgono meno, o molto meno, degli stessi debiti. Investitori con business plan molto rischiosi, ipotesi finanziarie irrealistiche, previsioni di rendimenti azzardate, spremono in tutti i modi molte delle imprese acquisite, dando loro di frequente un colpo mortale - mentre esse avrebbero potuto tranquillamente sopravvivere senza di loro- e caricano i loro dipendenti e le comunità di riferimento di sofferenze rilevanti (Thorntorn, 2008). Così, negli Stati Uniti, delle 105 società importanti che hanno aperto delle pratiche di fallimento nel 2008, ben 66 sono in qualche modo passate per le mani di società di private equity (Thorntorn, 2008). Si prevede peraltro da qualche parte (Saigol, 2008) che entro i prossimi tre anni sino al 40-50% degli stessi fondi potrebbe fallire. Il settore potrebbe essere la prossima bolla a scoppiare, come teme qualcuno, mentre esso deve rinegoziare entro il 2010 circa 500 miliardi di dollari di debiti con il sistema finanziario (Clark, Inman, 2009).
Cosa fare
Alla fine nessuno poteva immaginare una caduta più ingloriosa di strutture che sembravano destinate, con la benedizione della politica, a governare il mondo. Posto che comunque i due settori usciranno dalla crisi fortemente ridimensionati, ma probabilmente non cancellati, ci si può chiedere alla fine cosa farne. Il nostro pensiero è quello che, al di là di alcune misure che dovrebbero essere comuni ai due settori, bisognerebbe per il resto individuare dei provvedimenti differenziati. In ambedue i casi dovrebbe essere comunque proibito di operare a quelle società che fossero domiciliate nei paesi off-shore –ciò che ci riporta all’esigenza di restringere drasticamente, più in generale, gli spazi di tali tax haven- e far comunque pagare loro le tasse in maniera adeguata.
Per il resto, pensiamo che gli hedge fund possano continuare a svolgere la loro attività, continuando a raccogliere denaro tra una clientela agiata, ma non ottenere prestiti dalle normali banche, né i fondi pensione o i fondi comuni di investimento potrebbero essere in alcun modo coinvolti nelle loro attività. Dovrebbero anche essere meglio regolamentate alcune tecniche di borsa che permettono loro di guadagnare molti soldi contribuendo ad affondare il mercato.
Per quanto riguarda i fondi di private equity, dal momento che comprando e vendendo società essi potrebbero avere un ruolo fondamentale nella vita delle stesse, con conseguenze che abbiamo visto in certi casi diventare catastrofiche per le stesse imprese e per i lavoratori coinvolti, essi dovrebbero essere autorizzati ad operare solo con una almeno rilevante partecipazione azionaria e una supervisione incisiva da parte pubblica.
Testi citati nell’articolo
-Arnold M., Study highlights buy-out groups’ reliance on debt, www.ft.com, 14 gennaio 2009
-Clark A., Inman P., Private equity “next bubble to burst”, unions warn, www.guardian.co.uk, 3 febbraio 2009
-Comito V., Il modello imprenditoriale del private equity, Sviluppo & Organizzazione, n. 223, settembre-ottobre 2007
-Ramonet I., Voracité, Le Monde Diplomatique, novembre 2007
-Saigol L., Up to 40% of buy-out groups could fall, www.ft.com, 19 dicembre 2008
-Story L., Hedge funds, unhinged, The New York Times, 19 gennaio 2009
-Thorntorn E., What have you done to my company?, Business Week, 8 dicembre 2008
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