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Regno Unito: le ricette sbagliate

03/02/2011

I tagli draconiani al settore pubblico e l’aumento delle tasse in senso antiprogressivo del governo di coalizione caratterizzano un capitalismo sempre meno inclusivo

Mentre l’Europa continentale teme il riaccendersi del panico finanziario causato dall’esplosione del debito pubblico, il Regno Unito ha fatto riscontrare una crescita economica negativa (-0,5%) nell’ultimo trimestre del 2010. Il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha incolpato il maltempo per questo risultato che non era atteso: il freddo e la neve di dicembre hanno bloccato per diversi giorni la Gran Bretagna, con un influsso negativo specialmente sul settore delle costruzioni (-3.3%) che era stato, insieme a quello finanziario, il motore della crescita inglese durante gli anni del New Labour.

Certo, la neve non ha aiutato, diminuendo lo shopping natalizio, cancellando voli e treni e bloccando, appunto, i lavori in corso. Ma la spiegazione di Osborne è sbrigativa e non tocca il cuore del problema. D’altronde anche nel trimestre precedente la crescita è stata zero e, dal momento delle elezioni che hanno portato un Tory a Downing Street dopo 13 anni, l’economia è cresciuta solamente dello 0,3%. I problemi sono dunque più strutturali di quelli descritti dal governo. Il programma elettorale dei Conservatori, nella scorsa primavera, era piuttosto chiaro e si concentrava sulla diminuzione drastica del deficit nei prossimi anni, per reinstaurare la cosiddetta market confidence ed evitare attacchi speculativi che potrebbero destabilizzare l’economia inglese. La politica economica adottata da Cameron e Osborne è stata dunque molto simile alla shock therapy ripresa poi dai governi di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo, sulla falsariga delle ricette economiche fallimentari imposte in Asia e in Sud America dal Fondo Monetario Internazionale nello scorso decennio. Il governo ha pianificato tagli drastici al settore pubblico e aumento delle tasse, una politica fortemente restrittiva per ridurre il buco di bilancio ma, ovviamente, tale stretta fiscale ha un impatto sulla crescita. Il settore delle costruzioni è stato il primo a essere colpito: mentre il governo Brown aveva cercato di riattivarlo dopo il crollo del 2008-09 con commesse statali, il nuovo governo di coalizione ha cancellato diversi contratti di costruzione, come quello per l’edilizia scolastica, il che spiega in maniera più convincente il forte calo registrato dal settore negli ultimi mesi. La maggior parte degli altri tagli non è ancora entrata in vigore ma le aspettative negative dei cittadini britannici hanno portato questi ultimi ad anticipare la riduzione del consumo privato già agli ultimi 6 mesi del 2010. Ora, con il nuovo anno, la situazione è destinata a peggiorare. La VAT (la nostra IVA) è stata portata dal gennaio 2011 dal 17.5 al 20%, un incremento che con tutta evidenza colpirà i ceti più deboli (il decile più povero della popolazione perderà oltre il 2% del reddito netto contro meno dell’1% per il decile più ricco). Nel settore pubblico oltre 90.000 lavoratori perderanno il posto, primo amaro assaggio di un piano che prevede la riduzione degli addetti nel settore di quasi 500 mila unità tra quest’anno e il 2015. Nel 2012, infine, entrerà in vigore anche la famigerata riforma universitaria che triplica le rette per gli studenti portandole fino a 9.000 sterline annue mentre le risorse pubbliche destinate all’istruzione superiore vengono tagliate del 40%.

Il tutto sembra coerente con l’impostazione dottrinaria della Big Society che Cameron è andato a riscovare in campagna elettorale, meno stato e più mercato, come se la preponderanza del mercato non fosse stata in primo luogo la causa del crollo finanziario. Il problema vero, che Cameron e Osborne non sembrano cogliere, è dato però dalla congiuntura economica. Il Regno Unito è stato colpito molto duramente dal meltdown finanziario, con il PIL calato complessivamente del 5.9% e l’economia in recessione per sei trimestri consecutivi tra il 2008 e il 2009. Il boom del decennio precedente è stato fondamentalmente legato a due bolle, quella finanziaria e quella immobiliare favorite dall’emergere della City come hub mondiale dei servizi finanziari e dall’enorme crescita di liquidità degli istituti finanziari inglesi. Ora l’economia britannica si trova in una posizione di estrema debolezza: l’industria ha ripreso a girare, grazie anche ai livelli bassissimi del tasso d’interesse, e infatti i dati dell’ultimo trimestre sono positivi (+1.4%), ma il peso specifico del manifatturiero nella composizione del PIL britannico è assai modesto (13% - “Grazie, Signora Thatcher”!) mentre il settore finanziario, nonostante il consistente rialzo dell’ultimo anno, è ancora lontano dall’aver superato la crisi, come dimostrato dalle difficoltà di un grande istituto come Barclays Capital che per il sesto trimestre consecutivo ha registrato un calo dei ricavi – con conseguente licenziamento del 10% degli addetti.

In una situazione di ripresa così instabile, i tagli draconiani del governo di coalizione non hanno alcun senso economico se non quello di una crociata ideologica. Cameron ha sostenuto che i tagli e le dismissioni nel settore pubblico libereranno risorse per il settore privato e il risultato netto sarà positivo ma non è riuscito a dare nessuna spiegazione razionale del perché un settore privato malmesso dovrebbe aumentare gli investimenti e le assunzioni proprio quando il costo della vita è in aumento (a causa dell’aumento del VAT e della svalutazione della sterlina), la disoccupazione stagnante e in probabile crescita grazie ai licenziamenti pubblici e dunque le aspettative di consumo in calo. Nonostante l’accresciuto deficit dello stato, la dinamica del debito pubblico non era assolutamente paragonabile a quella di molti altri paesi, inclusa l’Italia, ovviamente, né c’erano segnali che la speculazione globale si stesse preparando ad attaccare la sterlina. Un approccio meno ideologico avrebbe potuto semplicemente continuare a stimolare la crescita economica, riducendo il debito in maniera graduale grazie alle accresciute entrate fiscali. In realtà il governo di coalizione sembra voler sfruttare la window of opportunity della crisi per riscrivere l’intero contratto sociale, per arrivare dove neanche due decenni di thatcherismo e un decennio abbondante di blairismo avevano osato. Lo smantellamento dei servizi pubblici locali, dell’istruzione, la carta bianca data al mercato, il tentativo di ripristinare l’economia del debito privato (illuminante in questo senso la riforma universitaria che impone agli studenti un indebitamento nell’ordine delle 40-50 mila sterline complessive) sono tutti segnali che sembrano prefigurare un capitalismo sempre meno inclusivo, sempre meno democratico. Allo stesso tempo sembra però anche condannare alla marginalità il Regno Unito, costretto a subire i furori ideologici di una pattuglia di neo-liberali che si accaniscono a rianimare il corpo ormai esanime di un modello economico fallimentare.

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