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I pericoli dello "ius culturae"
Le nuove regole di acquisizione della cittadinanza, ora al vaglio del Senato, prevedono che per averne diritto i bambini stranieri nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni debbano avere concluso positivamente un intero ciclo scolastico. In barba al fatto che il 15% dei bambini stranieri, anche tra i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare
Mettiamo che Abdul, seienne pakistano nato in Italia, in una scuola dell’infanzia non ci abbia mai messo piede. Impossibile? Niente affatto, è così per il 25% circa dei figli di genitori stranieri (contro il 3% degli italiani), e per tanti motivi. Perché la materna non è scuola dell’obbligo, perché in certe zone non c’è proprio, perché le scuole pubbliche non bastano e certe private costano troppo, perché il non coordinamento tra scuole comunali, statali, private, a tempo pieno e a metà tempo, con o senza tariffe, disorienta i meno esperti. E poi si sa che per alcune culture la scuola a 3 anni è troppo presto (era così anche per noi, 40 anni fa, e sono almeno 20 che si discute se le materne debbano o no far parte dell’obbligo scolastico).
Così quando Abdul arriva in prima elementare il suo italiano è di sicuro poca cosa. A casa sua si parla solo urdu e quello che ha imparato al parco e per strada è appena un po’ di più di quello dei “neoarrivati”, i ragazzi che sei mesi fa erano all’altro capo del mondo e oggi si ritrovano smarriti in una scuola italiana. Se Abdul capita in una scuola “esperta” che sa fare bene quello che serve, il problema non è insormontabile, basta un grappoletto di mesi con i coetanei – italiani e bilingue – per correre insieme. Ma ci sono storie diverse. Il 15% dei bambini stranieri, anche tra i nati da noi, è in “ritardo scolastico” fin dalla elementare ( diventerà, quel ritardo, più del 30% nella scuola media e oltre il 60% nella superiore ). A 7 anni in ritardo sono il 7,4%, a 10 anni il 19%. Ci sono infatti scuole in cui si decide, s’intende a fin di bene, che quelli come Abdul è meglio che ripetano una classe, qualche volta anche due, perché l’italiano non è abbastanza buono per passare alla classe successiva. E non importa se Abdul ha voglia di imparare, se è bravo a disegnare e a suonare il flauto, se coi numeri se la cava alla grande e pure con lo smartphone, se le regole del calcetto anche per lui non hanno più segreti. E neppure se quella bocciatura, quel cambiamento di classe e di compagni, lascerà qualche ferita.
Fin qui è una storia, amara quanto si vuole a quasi trent’anni dalle prime presenze straniere nella nostra scuola, e pure pericolosa - per il futuro delle seconde generazioni e anche per il nostro - perché sono ancora troppi i ragazzi stranieri scoraggiati da bocciature e ritardi che abbandonano gli studi prima di concluderli, ma in Italia sono tanti, anche a sinistra, a ritenere che tutto sommato sia normale. Uno scotto da pagare per chi arriva da altri paesi, un fisiologico effetto collaterale. E però d’ora in avanti di effetti collaterali potrebbero essercene anche altri, se il Senato non migliorerà il testo di modifica delle regole di acquisizione della cittadinanza approvato il 13 ottobre scorso dalla Camera. Perché il cosiddetto “ius culturae”, che consente ai bambini stranieri nati da noi o arrivati prima dei 12 anni di accedere alla cittadinanza italiana anche se non hanno un genitore fornito di permesso di soggiorno permanente , stabilisce che per averne il diritto bisogna aver frequentato un intero ciclo scolastico. E che, se il ciclo è quello della scuola elementare, bisogna averlo concluso positivamente, aver ottenuto cioè il via libero per l’iscrizione alla scuola media. Che cosa succederà? Secondo i beati costruttori del riformismo renziano niente di significativo. Secondo i meno beati, che ci sarà un certo numero di Abdul che la domanda di cittadinanza potranno farla solo a 13-14 anni, cioè solo 2-3 anni dopo l’età canonica dell’uscita dalla elementare, e solo 4 anni prima di quanto previsto finora, cioè della maggiore età. Non è granché per una riforma vantata come “epocale”, vera e propria “svolta di civiltà”. Non solo, ci saranno altri ragazzini, per esempio quelli con disabilità che compromettono l’apprendimento, che dello “ius culturae” – cultura, del resto, è in questo contesto una parola davvero grossa - non potranno approfittarne. Le 19 associazioni di “Italia sono anch’io”, la campagna che nel 2012 ha depositato 200mila firme a sostegno di due leggi di iniziativa popolare sulla cittadinanza dei nati in Italia e sul voto amministrativo agli stranieri, ovviamente non applaudono. E, come l’ASGI - l’associazione dei giuristi per l’immigrazione che di battaglie di civiltà ne ha già vinte parecchie in tribunale - avanzano proposte sensate di miglioramento del testo. Vedremo.
Il fatto è che il problema è anche di principio. Una cosa è utilizzare la regolare frequenza scolastica come indicatore di stabilità (in linea, del resto, con quanto previsto dall’”accordo di integrazione” di Maroni per il rinnovo del permesso di soggiorno dei genitori di figli in età di obbligo scolastico), un’altra è attribuire alla scuola e agli insegnanti la responsabilità dell’accesso o meno, e a un’età o a un’altra, alla cittadinanza. Ma è questo che accade, quando si pretende che la scuola primaria sia conclusa con successo. Accade quando una norma, a cui pure la maggioranza dell’opinione pubblica guarda con favore, deve essere negoziata con chi un più facile accesso alla cittadinanza degli immigrati extracomunitari, ancorché bambini nati e cresciuti da noi, la vede come il fumo negli occhi. E in un parlamento che su un provvedimento come questo, incontra non solo la fiera opposizione della Lega ma anche l’astensione di quei campioni di democrazia che sono i grillini.
I limiti della norma, del resto, non sono solo qui. L’altra via , quella dello “ius soli” cosiddetto “temperato” – cioè privo dell’automatismo in vigore negli USA – che consente l’accesso alla cittadinanza dei bambini con almeno un genitore provvisto del permesso di soggiorno permanente, ha anch’essa le sue malignità. È vero, infatti, che quasi il 60% degli immigrati stabilizzati ne è ormai in possesso, ma si tratta di una “carta” che si può ottenere solo a certe condizioni, tra cui alcune – un certo livello di reddito, una certa tipologia di alloggio – di tipo inequivocabilmente economico. È iniquo, sostengono alcuni, e hanno ragione. Di qui altre proposte di emendamenti, che si aggiungono alla contrarietà per una svolta così epocale da non avere avuto il coraggio di misurarsi con regole nuove e meno restrittive per l’ingresso nella cittadinanza degli adulti, quindi con una legge varata nel lontano 1991, quando della grande immigrazione globale c’erano solo alcuni prodromi. Siamo lontani dalla lungimiranza di Angela Merkel. Sarebbe già bene, comunque, se la legge uscisse dal Senato un bel po’ migliorata rispetto a come vi è entrata. Ma al momento non è affatto detto.
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