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Dietro la svolta ecologista di Apple
Il colosso californiano annuncia la sua "svolta ecologica" nella Repubblica popolare cinese. Ma un rapporto della Ong China Labour Watch smaschera a quale prezzo
Può la multinazionale che nell’ottobre-dicembre 2014 ha fatto registrare il profitto trimestrale più colossale della storia dell’industria (18 miliardi di dollari) promuovere la tutela ambientale in Cina ma, nello stesso tempo, continuare a violare sistematicamente i diritti dei lavoratori, nonostante i rapporti e le denunce delle organizzazioni non governative (ong) che negli ultimi anni l’hanno più volte invitata a cambiare rotta?
Evidentemente sì, a giudicare dagli ultimi eventi di cui è protagonista Apple, il gigante californiano che – attraverso una serie di appaltatrici (Foxconn, Pegatron e altre) – nella Repubblica popolare dà lavoro ad alcuni milioni di operai.
Il 21 ottobre i media e le agenzie di stampa internazionali sono stati inondati dai comunicati stampa della big dell’elettronica che hanno generato titoli come: “Apple lancia altri progetti solari in Cina e rende verdi (ecologici, ndr) i suoi fornitori” (Reuters); “L’impegno per il clima di Apple prevede di aumentare di cinque volte gli investimenti solari in Cina” (Bloomberg)… e così via. Mercoledì scorso infatti la compagnia guidata dall’amministratore delegato Tim Cook ha annunciato che nella Repubblica popolare metterà su progetti solari per complessivi 200 megawatt (che dovrebbero fornire energia a 265.000 famiglie) e che spingerà i suoi produttori locali “a diventare più efficienti da un punto di vista energetico e a utilizzare energie pulite per le loro operazioni manifatturiere”.
Secondo Apple, la sua “svolta ecologica” in Cina eviterà l’immissione nell’atmosfera di 20 milioni di tonnellate di gas serra di qui al 2020.
Oltre che per il trattamento dei lavoratori negli impianti dei suoi fornitori locali, Apple è da tempo nel mirino degli ecologisti per l’emissione di polveri sottili nell’aria e di liquami contenenti metalli pesanti nelle acque di un Paese dove oltre 30 anni di industrializzazione accelerata e senza regole hanno prodotto danni ambientali incalcolabili.
Nell’aprile scorso, la statunitense SunPower aveva annunciato una joint-venture con Apple per costruire due centrali (da 20 MW ognuna) nella provincia meridionale del Sichuan. Secondo Apple – dopo l’entrata in funzione di questi impianti – le sue operazioni in Cina sono ormai a “emissioni zero” (carbon neutral), perché le sue installazioni solari producono più energia di quanta ne consumino le sue fabbriche e i suoi store sparsi per la Cina.
Fin qui i dati della campagna di pubbliche relazioni di Apple, che si propone come protagonista della svolta verde che l’intero Paese deve affrontare (Pechino ha promesso di raddoppiare la quantità di energia da fonti rinnovabili entro il 2030) , se vuole evitare che la sua crescita venga fermata da una crisi ambientale senza precedenti.
Il giorno dopo l’annuncio della “svolta ecologista” di Apple, è stato reso pubblico un rapporto sulle condizioni dei lavoratori nello stabilimento di Shanghai di uno dei suoi fornitori, l’azienda taiwanese Pegatron.
L’inchiesta di China Labour Watch è stata condotta “infiltrando” operai che hanno indagato per conto della ong nell’impianto di Shanghai (che può impiegare fino a 100.000 operai) e ha rivelato turni di lavoro di oltre 60 ore settimanali (in violazione delle linee guida della stessa Apple), dormitori umidi e sovraffollati e condizioni di lavoro pericolose.
L’impianto di Pegatron della megalopoli sul fiume Huangpu sforna milioni di esemplari di iPhone 6S, in vendita in Europa a circa 600 euro.
L’organizzazione per la difesa dei diritti dei lavoratori con sede a New York scrive che “i suoi (di Pegatron) giovani operai lavorano duramente sei giorni alla settimana in turni di 12 ore. Ogni giorno sono pagati per dieci ore e mezza di lavoro, senza contare 15 minuti di meeting non pagati. Gli straordinari obbligatori durano dalle 17:30 alle 20”. CLW sottolinea che il salario corrisposto a questi lavoratori, pari a 318 dollari mensili (1,85 dollari all’ora), è inferiore al salario minimo.
Proprio nell’impianto shanghaiese di Pegatron il 3 febbraio scorso l’operaio ventiseienne Tian Fulei morì dopo aver effettuato per mesi lunghe ore di straordiario. Un documento ufficiale ottenuto da CLW mostra che – nel novembre 2014 – un altro operaio riuscì a totalizzare 130 ore di straordinario.
Al termine dei turni di lavoro, i dipendenti di Pegatron vengono riportati in autobus nei dormitori dove, in stanze dalle pareti ammuffite, sono stipate fino a 14 persone.
Ai lavoratori “infiltrati” da CLW inoltre “non sono mai state indicate le uscite d’emergenza né hanno mai partecipato a esercitazioni d’emergenza”.
Secondo la ong, rispetto alla sua ultima ispezione (due anni fa) nell’impianto shanghaiese poco è cambiato: infatti quest’ultima rivela “23 diversi titpi di violazioni, etiche e legali, dei diritti dei lavoratori”.
E, a fronte di limitati miglioramenti (la “quasi eliminazione delle discriminazioni nelle assunzioni; la diminuzione dell’orario di lavoro ufficiale da 63 a 60 ore settimanali) si registrano “enormi peggioramenti in cinque categorie di violazioni: forte aumento del costo dei pasti; netto incremento dell’impiego di contratti a breve termine; riduzione del tempo per la pausa pranzo; occasionale proibizione dei pasti; grave peggioramento delle condizioni dei dormitori.
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