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Il grande freddo
Parigi è sempre Parigi
Nel comunicato finale del G7 di 2015 svoltosi allo Schloss Elmau in Baviera è compresa una frase che ha riempito di felicità gli ambientalisti: «È necessaria un’azione urgente e concreta per affrontare il cambiamento climatico». In tutti i quaranta comunicati precedenti, dal primo di Rambouillet in poi, niente di tanto audace era stato affermato. Pieno a sua volta di speranza il ministro italiano dell’ambiente Gian Luca Galletti non si è risparmiato. «Un segnale importantissimo. Che i paesi industrializzati decidano di adottare politiche per mantenere il surriscaldamento globale entro i 2 gradi, cioè alzino l’asticella dell’impegno politico sul climate change è il miglior viatico per l‘accordo di Parigi. Ora bisognerà lavorare per trovare soluzioni equilibrate, anche finanziarie, che consentano ai colossi asiatici, Cina e India, e ai paesi poveri di aderire a un accordo che per essere efficace dovrà essere alto, ambizioso ed equo». Il Gruppo dei “sei paesi più industrializzati” – il Canada non era stato ancora preso in considerazione – nasceva da un’inziativa di Valery Giscard d’Estaing, presidente francese, per discutere e risolvere, tra potenze pari grado, il problema delle monete e del petrolio. Da qualche anno il dollaro non era più convertibile, (35 dollari l’oncia d’oro) per l’atteggiamento irrispettoso di de Gaulle. Post hoc e propter hoc anche il petrolio non era più convertibile in due o tre dollari al barile. Giscard, successore di de Gaulle, intendeva metterci una pezza. “noi grande potenze industriali che fabbrichiamo tutto o quasi: le automobili, la chimica e l’acciaio, le armi e le medicine e compriamo in cambio il petrolio in medio oriente e altrove vogliamo ridare ordine al mondo, vogliamo stabilire delle regole per tutti e una nuova alleanza tra di noi”. Questo più o meno il discorso che lasciava ammirati e sorpresi i vincitori (Urss a parte) e gli sconfitti della seconda guerra mondiale. Si decise che ogni paese dei sette – il Canada era stato recuperato per spalleggiare Washington (e anche Londra) – nei confronti dell’eccesso di europei continentali e che un paese ogni anno avrebbe ospitato l’evento. Quando toccò all’Italia, la foto ufficiale mostrava sullo sfondo di Palazzo Ducale Margaret Thatcher con Jimmy Carter, Giscard e gli altri; il nostro era Francesco Cossiga che, da poco, aveva sostituito Giulio Andreotti come presidente del consiglio. Il mondo libero, il mondo del grande dominio industriale, dimenticato Aldo Moro, era di nuovo compatto.
L’Urss (oops! La Russia) è entrata e uscita per indegnità, dal novero dei paesi industrializzati; si sono allargati e ristretti gli inviti, nei decenni successivi ai nuovi paesi industriali, dove le multinazionali occidentali esportavano tecniche e macchinari e i governi locali offrivano gli operai a salari di fame, con inquinamento centuplicato. Per tre volte a rappresentare l’Italia – a Napoli, a Genova, all’Aquila – abbiamo avuto uno squisito anfitrione come Silvio Berlusconi. Il più significativamente ecologico dei suoi gesti è stato quello di proibire l’esposizione di mutande sui fili del bucato nel centro storico – la zona rossa – di Genova, nel luglio del 2001. Dopo di allora e dopo l’11 settembre di due mesi dopo, le riunioni dei sette od otto o quindici o 21 grandi paesi industriali è diventato uno di quegli eventi molto graditi dalle associazioni turistiche che devono ospitare migliaia di sherpa che arrivano – con le fidanzate – da tutte le parti del mondo. Cosa rimane di ambientalistico? Questa volta è rimasto il colpo di laser che Greenpeace ha proiettato sullo Zug Spitz, altissima montagna tedesca incombente su castello di Elmau – proprio come avrebbe fatto un tifoso di calcio per infastidire il portiere avversario – la seguente frase : «G7: go for 100% renewables!» Ed è tutto.
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