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Italicum, una legge su misura

28/01/2014

La proposta di legge in discussione in Parlamento non risponde a esigenze di principio o di sistema, ma solo a un’urgente esigenza di autotutela, reciproca, di Pd e Fi nella situazione presente

Il documento firmato da un gruppo di costituzionalisti (L’Italicum è peggio del Porcellum, “il manifesto”, 26/01/2014) indica in modo stringente sia i caratteri di incostituzionalità sia gli effetti politici della proposta di legge elettorale presentata da Fi, Pd e Ncd, e attualmente alla discussione in commissione alla Camera. Sul primo punto il documento sottolinea la grave sproporzione tra voti ottenuti e seggi che ne deriverebbero a vantaggio del vincitore; circa il secondo insiste sull’ulteriore distorsione che provocherebbero le soglie di accesso straordinariamente alte, con il risultato di cumulare di due distorsioni, che cancellerebbero dal Parlamento tutti i partiti tranne i tre maggiori.

A quest’analisi è possibile aggiungere alcune considerazioni. La prima riguarda la truffa pubblicitaria con cui la bozza di legge viene difesa dai suoi proponenti; la seconda un ulteriore profilo di distorsione costituzionale, che non mi pare sia stato segnalato.

La soglia del 5 per cento per i partiti in coalizione, dell’8 per i partiti singoli e del 12% per le coalizioni non corrisponde a nessuna esigenza di governabilità - la parola magica utile a difendere ogni indecenza - perché essa è già garantita dal premio di maggioranza. Corrisponde invece alla speranza dei due proponenti maggiori di riuscire a ottenere il premio già al primo turno grazie alla pressione che questi vincoli possono esercitare sull’elettorato con il timore di sprecare il proprio voto. Si tratta di soglie di sbarramento a livello nazionale che non hanno riscontro né in Germania (5% per il singolo partito) né in Francia, dove lo sbarramento esiste solo a livello di collegio, e dove quindi partiti minori, ma con consistenti nuclei locali, lo possono superare. Inoltre è in contraddizione con la demonizzazione propagandistica delle coalizioni (che sono state scelte strumentalmente in passato, e lo sarebbero ancora di più in futuro per vincere il premio di maggioranza, con la possibilità di sciogliersi poi alla prima occasione) il fatto di stabilire una soglia più alta per il partito singolo che non per quello coalizzato e incentivare così proprio il sotterfugio che si dovrebbe evitare. Si noti che in assenza di una qualsiasi legge sui partiti essere partito o essere coalizione ai fini elettorali dipende solo da un’autocertificazione, aperta a ogni abuso.

 

L’obiettivo reale è di indurre partiti che non avrebbero nessuna speranza di raggiungere la soglia dell’8 per cento a coalizzarsi con uno dei due partiti proponenti, ma non con altri, e affini, partiti minori; e questo grazie a un’ulteriore truffa, che non c’era nella proposta di Violante, il quale lo ha fatto notare. A differenza che nella sua, in questa proposta i voti del partito coalizzato che non raggiunga il 5 per cento contano per determinare il 35 per cento che vale il premio al partito maggiore, ma non valgono per entrare in Parlamento. E questo ha una notevole importanza anche per i partiti che non vincono il premio di maggioranza, perché essi, qualora vengano eliminati tutti i partiti minori, si spartiscono la minoranza dei seggi che è un 43-45 per cento. Si pensi ai sondaggi correnti in questi giorni come riferimento realistico per una rozza simulazione. Con le soglie previste entrerebbero in Parlamento solo Pd, Fi e M5S. Le intenzioni di voto per il primo sono intorno al 32-33 per cento, il raggiungimento del 35 è un obiettivo realistico. In questo caso Fi e M5S si spartirebbero la minoranza dei seggi: pari o leggermente superiore alle intenzioni di voto che raccolgono al momento, e che stanno intorno al 21 per cento. Il ragionamento ovviamente non cambia se si ipotizza invece che al primo o al secondo turno possa vincere Fi. Certamente i due sottoscrittori di questo patto elettorale ritengono, al momento realisticamente, che una vittoria al primo turno, o anche al secondo, sia fuori della portata di M5S.

Non è in questione se un Parlamento così brutalmente amputato sarebbe peggiore o migliore dei precedenti. È invece in questione la tutela di diritti costituzionali. Per esemplificare: si può presumere che ci siano oggi in Italia almeno quattro partiti o raggruppamenti che possono raggiungere una soglia del 3 per cento. Con il tasso di astensione delle ultime elezioni questa percentuale vale circa 900.000 voti. Complessivamente, per quattro partiti, questo vuol dire tre milioni e mezzo di voti, altrettanti cittadini non rappresentati, da sacrificare non già alla governabilità, alla garanzia che un governo abbia una stabile maggioranza parlamentare, ma alla tutela degli interessi del maggior perdente (se questo poi offre qualche vantaggio anche a Grillo, pazienza, non si può avere tutto).

Questa proposta di legge non risponde a esigenze di principio (mettere in atto un processo elettivo trasparente e non distorto in nuce, che consenta scelte sensate agli elettori) o di sistema (bilanciare i due vincoli della rappresentatività e della governabilità in un regime parlamentare). Essa risponde invece a un’urgente esigenza di autotutela, reciproca, di Pd e Fi nella situazione presente. Soprattutto per il primo, ma potenzialmente anche per il secondo, il difetto della legge Calderoli non stava nei gravi vizi censurati dalla Corte costituzionale. Stava piuttosto nella “irrazionale” normativa per l’elezione del Senato, che rendeva casuale la possibilità di avere lo stesso vincitore nei due rami del Parlamento (e apposta per questo era stata costruita contro il probabile vincitore, Prodi). Nel patto Renzi-Berlusconi è prevista la fine del Senato elettivo, con la sua funzione di conferimento della fiducia al governo; ma la legge elettorale dovrebbe essere approvata prima della modifica costituzionale delle prerogative del Senato, e quindi, a ogni buon conto, la proposta contiene anche una normativa per l’elezione dei senatori. Essa è assolutamente identica a quella prevista per i deputati, e quindi produrrebbe esattamente le stesse maggioranze. Il risultato è una modifica degli equilibri costituzionali, con la scomparsa totale di ogni contrappeso tra le due Camere. Dovrebbe essere una situazione transitoria, ma chi può dirlo?

Questo contrappeso non era granché neanche nella prima repubblica; ma allora l’intero quadro istituzionale poggiava su un complesso di bilanciamenti che adesso è scomparso. Il contrappeso di una seconda Camera è notevole invece in tutti regimi democratici del cui modello ci si riempie la bocca ogni volta che si vuol impartire una lezione al popolo sui paesi normali: contrappeso potentissimo negli Stati uniti, più e meno forte in Germania e in Francia, ma reale in entrambi i paesi per la caratteristica della seconda Camera di essere rappresentanza delle regioni nella prima, dei comuni nella seconda. La cosiddetta Camera alta è invece in via di sparizione nel Regno Unito - paese che, dopo essere stato un modello di libertà per l’Europa, oggi quanto a istituzioni è alquanto carente da un punto di vista liberaldemocratico. Senza una costituzione, quindi senza alcun controllo di costituzionalità, con una legge elettorale che quasi sistematicamente consegna il governo a chi è minoranza nel paese, con un capo dello Stato ereditario privo di qualsiasi funzione, con scarse autonomie locali nel suo nucleo centrale, l’Inghilterra, il Regno Unito è oggi quello che già all’inizio del secolo scorso analisti politici di penna acuminata avevano chiamato ironicamente una dittatura (benevola, s’intende) della maggioranza parlamentare. È anche il paese che da quarant’anni a questa parte ha presentato il modello più riuscito di uomo solo al comando, che è l’ideale tanto di Berlusconi quanto di Renzi: quello a cui si delega, e che poi sceglierà per il meglio. Se non approvate la proposta, ha detto il segretario alla direzione del Pd, non votate contro di me, votate contro i tre milioni che mi hanno scelto. Ai quali, ovviamente, nessuno aveva spiegato quale legge elettorale fosse incorporata nel segretario. Del resto sia Alfano sia D’Alimonte, consigliere di Renzi per questa materia, hanno detto chiaramente che il doppio turno di coalizione a livello nazionale vuol dire di fatto elezione diretta del capo del governo, senza che ci sia neppure bisogno di cambiare la costituzione.

Al tempo stesso, sempre sul terreno costituzionale, dovrebbe preoccupare assai il fatto che nessuno abbia parlato della necessità urgente, in presenza di una legge così gravemente distorsiva della rappresentanza, di cambiare le maggioranze parlamentari richieste dalla Costituzione, le quali erano state pensate su un sistema elettorale proporzionale, e sono pericolosamente sbilanciate quando il sistema diventa duramente maggioritario.

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