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L'ambiente a perdere

20/09/2013

Il nuovo paradigma che deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni. È l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse e salvaguardia degli equilibri ambientali

Il mondo non è più quello dell’immagine di un universo economico e sociale in espansione che ha consolidato l’idea della crescita destino del pianeta. Nel corso degli ultimi trenta e più anni la globalizzazione è andata sviluppandosi lungo due assi: orizzontale, con l’unificazione del mercato; e verticale, riunificando sotto il comando del capitale finanziario la stragrande maggioranza delle attività produttive. In entrambi i casi, ad aver trasformato radicalmente gli assetti dei processi produttivi e delle politiche dei governi nazionali, locali e sovranazionali è l’economia del debito. Sullo sfondo della crisi economica e sociale e ad essa direttamente connessa c’è la crisi ambientale che ha ormai investito tutto il pianeta e che rischia ogni giorno di più di arrivare a un punto di non ritorno.

All’approccio che domina il discorso che accomuna sostenitori del pensiero unico liberista, favorevoli alle deregolamentazioni e alle privatizzazioni, e fautori del ritorno a politiche keynesiane di sostegno alla domanda, manca una presa in carico dell’emergenza ambientale come pilastro di una ridefinizione sia delle cose e delle attività da fare che di quelle che non si possono e non si devono più fare. Tutte le ricette che oggi vengono proposte come vie per la “ripresa”, per rimettere in moto la “crescita” fanno riferimento a un mondo che non esiste più.

La più banale è l’uscita dall’euro. I fautori di questa scelta ritengono che con il ritorno a un cambio flessibile una consistente svalutazione della nuova lira sarebbe di per sé sufficiente a far recuperare al nostro paese quella competitività sui mercati internazionali che gli scarsi progressi della produttività degli ultimi due decenni gli hanno fatto perdere. Ma è un’illusione. Una parte consistente, ancorché minoritaria del nostro apparato produttivo, ha continuato a esportare molto nonostante la sopravvalutazione della valuta. Il resto del sistema produttivo italiano è invece sprofondato, inghiottito dal calo della domanda interna (cioè dei redditi da lavoro), dai tagli della spesa pubblica, dal credit crunch imposto da banche traballanti, dai mancati pagamenti dello Stato, dalle tasse, dalla corruzione, dalle delocalizzazioni; ma soprattutto dalla mancanza di una politica industriale in grado di indirizzarlo verso una riconversione non solo dei processi, responsabili dei livelli di produttività, ma soprattutto dei prodotti.

La ricetta più in voga tra i sostenitori di una politica di stampo keynesiano auspica invece un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dall’Unione Europea e dalla Bce. Ma i fautori di queste politiche raramente hanno il coraggio di spiegare che cosa potrebbe e dovrebbe fare il governo italiano per spezzare quei vincoli; per lo più ritengono che ad essi non ci si possa sottrarre (“non c’è alternativa”). In attesa di una svolta ci si limita a ipotizzare una diversa allocazione delle risorse tra le diverse voci del bilancio nazionale (meno spesa per le armi e per le grandi opere, più impegno per il welfare e per la manutenzione del territorio); senza però ricordare il salasso a cui le finanze del paese sono sottoposte dal pagamento degli interessi sul debito in regime di pareggio del bilancio (80-90mila miliardi all’anno) e, dall’anno prossimo, dalle rate del fiscal compact (altri 45-50mila miliardi all’anno).

Per questo, anche le aperture di questo filone di pensiero nei confronti di un programma di conversione ecologica – per lo più presentate come incentivazione di una generica green economy – non hanno alcuno spazio di realizzazione entro quei vincoli. Riconversione produttiva, sostegno all’occupazione, ai redditi, alla ricerca, all’innovazione, all’istruzione, all’accoglienza e all’integrazione, salvaguardia del welfare non sono possibili senza un massiccio ricorso alla spesa pubblica, soprattutto a livello locale. Ma sono tutte cose che non possono più essere governate – se mai lo sono state – a livello centrale. Senza un radicale coinvolgimento delle popolazioni interessate attraverso nuove forme e nuovi istituti di democrazia partecipativa e nuove forme di finanza locale, direttamente promossi da Comuni e consorzi di Comuni, l’unico modo di impiego della spesa pubblica in funzione anticiclica va a parare sulle cosiddette Grandi Opere: cioè in un ennesimo sfregio all’ambiente e alla vivibilità, con ricadute, in termini di occupazione e produttività, nulle o negative. Inoltre il settore esportatore del nostro paese è impegnato soprattutto nella produzione di beni strumentali e di lusso, mentre i cosiddetti beni-salario – alimentazione, abbigliamento, apparecchi elettrici ed elettronici, veicoli di bassa gamma, ecc. – sono sempre di più oggetto di importazione da - o di delocalizzazioni in - paesi emergenti. Per questo, senza un radicale processo di conversione produttiva, una crescita della domanda interna scarsissime conseguenze sui livelli occupazionali e pesanti ricadute sulla bilancia dei pagamenti.

L’ultima ricetta, agitata per lo più solo in forma propagandistica, è il protezionismo. È ovvio che da una politica del genere, che solleverebbe le ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove barriere doganali, l’economia italiana, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, avrebbe da perdere ben più che da guadagnare. E un approccio del genere metterebbe fine una volta per tutte alla prospettiva di “uscire dal baratro” con la crescita.

L’inadeguatezza di queste ricette mette in luce i problemi di fondo nel nostro come in molti altri paesi europei che si trovano in situazioni altrettanto drammatiche: la mancata utilizzazione di una quantità crescente di risorse già presenti, sia in termini di know-how e di impianti che di saperi diffusi, di competenze sociali e gestionali, di buone pratiche; e l’impossibilità di colmare il divario con i paesi forti dell’Unione Europea finché l’intero continente rimarrà soggetto a un potere finanziario che controlla e condiziona le politiche degli Stati membri e di cui l’euro e la Bce sono lo strumento operativo; uno strumento che in un contesto libero da quei condizionamenti potrebbe operare in direzione diametralmente opposta. Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci), è l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ambientali e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell’occupazione messi alle corde dal sistema economico attuale.

Per promuovere una riconversione di così vasta portata non bastano rivendicazioni, conflittualità e lotte; ci vogliono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobilitabili, aggregazioni di associazionismo di imprenditorialità, di presenze istituzionali che delineano il perimetro variabile, ma essenziale, di una democrazia partecipativa: compatibile, e per molto tempo destinata a convivere, con le forme tradizionali della rappresentanza istituzionale; ma non ne definiscono le forme, che non dovranno necessariamente essere simili ovunque.

 

(Intervento alla III Sessione, 7 settembre 2013: Riconversione ecologica come occasione di redistribuzione: pace, ambiente, cooperazione)

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