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Ilva, un nuovo rapporto tra Stato e mercato
Attraverso il commissariamento, lo Stato assicura la sopravvivenza dell’impresa non nell’interesse privato degli stessi operatori economici ma in quello della collettività
Lo scorso 1° agosto è stato convertito in legge, senza modifiche, il decreto legge 4 giugno 2013, n. 61, recante Nuove disposizioni urgenti a tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro nell’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale.
Il decreto faceva seguito al primo provvedimento d’urgenza salva Ilva (decreto legge 3.12.12 n. 207, recante Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), mediante il quale l’Ilva veniva dichiarata stabilimento di interesse strategico nazionale e, per tale via, re-immessa nel possesso dei beni e autorizzata alla prosecuzione dell’attività ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti, subordinatamente al rispetto delle prescrizioni contenute nell’Aia (autorizzazione integrata ambientale).
Su tale intervento d’urgenza, che ha decretato la ripresa dell’attività produttiva a dispetto delle misure cautelari imposte dai giudici si è pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza n. 85 del 9 aprile 2013), che ha ritenuto infondata ogni questione di illegittimità costituzionale, sulla base del rilievo per cui “il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale, di peso ancor maggiore nell’attuale fase di recessione economica nazionale e internazionale, senza tuttavia sottovalutare la grave compromissione della salubrità dell’ambiente e quindi della salute delle popolazioni presenti nelle zone limitrofe”.
Sul piano dei principi affermati, ciò che la Corte ha voluto dire è che accanto al diritto alla salute, di cui la Repubblica deve farsi carico, esistono altri doveri che incombono allo stesso modo sullo Stato, primo fra tutti quello di tutelare il lavoro.
Nella specie, la Corte ha ritenuto che la salute potesse essere adeguatamente tutelata non soltanto attraverso il blocco della produzione, ma anche attraverso l’adozione di un provvedimento che consentiva di intervenire sulle modalità della produzione, evitando la chiusura.
Tuttavia, l’elemento centrale su cui ruotava l’intera pronuncia, ovvero la ragionevolezza della soluzione adottata, risultava smentita dai fatti: a Taranto si continuava ad inquinare.
Riprendeva dunque il braccio di ferro con la magistratura. Un nuovo sequestro è stato disposto dalla Procura di Taranto, stavolta sui beni e le disponibilità economiche e finanziarie della proprietà (della società controllante, gruppo Riva Fire), per un ammontare pari alle somme che l’Ilva avrebbe risparmiato non adeguando gli impianti del siderurgico alle normative ambientali e pregiudicando l’incolumità e la salute della popolazione.
Il Gip rimproverava al governo di aver consentito la ripresa della produzione senza esigere garanzie finanziarie e senza la predisposizione di un adeguato piano di ripristino ambientale. Ci si trovava, nuovamente, in una situazione di stallo, perché al nuovo sequestro facevano seguito nuove minacce di chiusura degli impianti.
Nel frattempo, l’attivazione dei meccanismi di controllo predisposti dallo stesso decreto evidenziava il mancato rispetto delle prescrizioni dell’Aia. La situazione, che coincideva con l’avvio della nuova legislatura, era tale da richiedere un nuovo intervento d’urgenza.
Si arriva così al secondo decreto salva Ilva. L’obiettivo del nuovo provvedimento è sempre quello di risanare la fabbrica e continuare a produrre le milioni di tonnellate di acciaio a cui il paese non può rinunciare. Ma il rispetto delle condizioni prescritte dall’Aia non è più rimesso all’attuale gestione dell’Ilva: la soluzione è adesso quella del commissariamento.
Il nuovo decreto legge, intervenendo con una soluzione innovativa, consente di fare ricorso al “commissariamento straordinario dell’impresa che gestisca almeno uno stabilimento di interesse strategico nazionale e la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute a causa dell’inosservanza dell’Aia”.
Il nuovo decreto intende assicurare la prosecuzione dell’attività produttiva, ma con destinazione prioritaria delle risorse alla copertura dei costi necessari al rispetto delle prescrizioni di cui sopra.
Per l’esecuzione degli obblighi di attuazione delle prescrizioni dell’Aia e degli obblighi di messa in sicurezza, risanamento e bonifica ambientale, il giudice dispone lo svincolo delle somme sequestrate in sede penale in favore del commissario, destinandole alle predette finalità.
I proventi derivanti dall’attività dell’impresa commissariata restano nella disponibilità del commissario nella misura necessaria all’attuazione dell’Aia ed alla gestione dell’impresa nel rispetto delle previsioni del decreto.
L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è, com’è noto, una procedura concorsuale, introdotta nel 1979 dalla legge Prodi (L. 95/1979) ed ora regolata dal D. Lgs. 270/99. Essa mira al recupero e al risanamento delle grandi imprese che versano in uno stato di insolvenza, per evitare la dispersione del patrimonio aziendale e la perdita di un gran numero di posti di lavoro.
Fare ricorso ad essa rappresenta una soluzione originale e innovativa sotto più di un aspetto; primo, fra tutti, quello di aver operato una sorta di equiparazione tra la situazione di insolvenza (derivante dall’esposizione per debiti contratti nell’interesse della stessa impresa) e l’esternalizzazione dei costi ambientali, considerando il mancato adeguamento delle tecniche di produzione alle norme ambientali come una sorta di insolvenza agli obblighi, imposti all’impresa ex lege, nei confronti dello Stato e nell’interesse della collettività.
La procedura di amministrazione straordinaria mira a recuperarne l'equilibrio economico e finanziario dell’impresa secondo diverse modalità, che vanno dalla cessione dei complessi produttivi all’attuazione di programmi di ristrutturazione. Nel caso di specie, sembra esclusa ogni prospettiva di cessione e la ristrutturazione dell’impresa viene ad essere adattata alle specifiche esigenze.
Il diktat che consegue al commissariamento è quello dell’adeguamento delle strutture produttive alle condizioni di autorizzazione, della bonifica e del risanamento ambientale, conformemente a quelle che erano state le determinazioni del Tribunale del riesame; il tutto a spese della famiglia Riva.
La concreta gestione della stessa sembra improntata ai basilari principi che regolano la materia ambientale: primo fra tutti il principio chi inquina paga, che obbliga le imprese a tenere conto, tra i costi di gestione, dei costi generati dalla loro attività.
La prosecuzione dell’attività economica secondo i criteri definiti nell’autorizzazione implica una significativa riconversione del sistema produttivo. Sarà inoltre necessario operare un raccordo con le prescrizioni contenute nel decreto legge 7 agosto 2012 n. 129, recante disposizioni urgenti per il risanamento e la riqualificazione del territorio della città di Taranto.
L’intera vicenda dell’Ilva dimostra quanto si riveli miope il perseguimento di una politica d’impresa che miri ad accumulare facili profitti a scapito della salute e dell’ambiente, senza investire adeguatamente in tecniche di produzione moderne e sostenibili che possano, oltretutto, rendere l’impresa più competitiva.
Ma la stessa vicenda si presta ad un diverso tipo di considerazioni.
Non è la prima volta che si sovrappongono crisi ambientale, crisi economica e crisi occupazionale, facendo esplodere il conflitto in termini di tensioni sociali, interventi della magistratura e mediazioni del ceto politico.
In Italia, è quanto è accaduto nella seconda metà degli anni ’70, da un lato sotto l’eco della crisi petrolifera, che ha messo per la prima volta in discussione le potenzialità illimitate della crescita; dall’altro per i sempre più frequenti incidenti, alcuni gravissimi quali l’Icmesa (Seveso, 1976), che hanno messo in luce i pericoli per la salute e per l’ambiente connessi ad uno sviluppo sregolato.
Si è più disposti a chiudere un occhio quando si guarda al miraggio del miglioramento delle condizioni (economiche) di vita. Ma quando quel miraggio svanisce la coscienza collettiva si risveglia.
Quella crisi, come oggi, non è stata solo italiana ed ha rappresentato una svolta, generando una nuova coscienza ambientale improntata alla limitatezza delle risorse del pianeta.
Il risultato che ha prodotto è stato quello di considerare indispensabile l’intervento di regolamentazione dello Stato, allo scopo di correggere le distorsioni e le insufficienze del mercato capitalistico.
La crisi ambientale determinata dall’Ilva si situa, oggi, in un diverso contesto, che coincide di nuovo con la crisi economica ma in cui ad essere chiamata in causa è, anche, la crisi del modello capitalistico neoliberista.
Gli esiti della vicenda lo confermano.Non è più questione di “assenza di regolamentazione” e dunque della necessità di affidarsi ad un intervento pubblico correttivo. Le misure di regolamentazione esistono e sono anche più sofisticate rispetto al passato. Sotto tale profilo, la lezione che si ricava dall’Ilva è piuttosto un’altra ed attiene al progressivo deterioramento delle pubbliche amministrazioni, alla cui responsabilità va ascritto, in ultima analisi, quanto accaduto a Taranto.
Ma il punto è un altro. La vicenda dell’Ilva ha reso necessario l’intervento dello Stato, ma in una diversa accezione del termine, ovvero come mezzo per evitare l’uscita di scena di un’impresa sana solo apparentemente perché, di fatto, non teneva conto tra i costi della produzione, dei costi inflitti alla collettività.
Al fine della realizzazione di tale risultato si è evocato anche lo spettro delle nazionalizzazioni (ex art. 43 Cost.), espressione massima dell’intervento dello Stato nell’economia. Tuttavia è chiaro che, quand’anche si fosse fatto ricorso a tale strumento, non di una vera e propria nazionalizzazione si sarebbe trattato, quanto piuttosto di un espediente necessario per trovare nuovi acquirenti e modificare l’assetto proprietario dell’impresa.
Ciò che si vuol dire è che non si tratta di riproporre modelli del passato, quanto piuttosto di tenere presente che, attraverso la nazionalizzazione o il commissariamento, lo Stato finisce con l’assumere su di sé un ruolo importante: assicurare la sopravvivenza dell’impresa, piuttosto che limitarsi ad osservare l’impietoso funzionamento delle regole del mercato. Il tutto, ovviamente, non già nell’interesse privato degli stessi operatori economici, ma nell’interesse della collettività.
Il nuovo monito che consegue alla vicenda dell’Ilva è dunque quello di prendere sul serio i doveri che incombono sullo Stato: quei doveri sanciti nella nostra Costituzione e per anni offuscati dai nuovi postulati posti a fondamento del progetto d’integrazione europea.
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