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Debiti e riforme, la lezione degli Usa

12/07/2013

Per cambiare la rotta dell'Unione europea si potrebbe prendere spunto dal piano proposto nel 1791 da Alexander Hamilton, il primo ministro del Tesoro degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti alla loro nascita avevano un rapporto debito/PIL pari al 30% circa; un’entità “inammissibile” per le teorie economiche dell’epoca.

Sono state le controverse politiche di Alexander Hamilton, il primo ministro del Tesoro degli Stati Uniti, a sterzare in positivo un fardello così rilevante sulle spalle del giovane Stato, grazie a una serie di iniziative che hanno coinvolto la ristrutturazione del debito, la creazione di un sistema monetario e bancario nazionale, la fiscalità indiretta e l’indirizzo delle politiche di sviluppo.

Quello di Hamilton fu un progetto che prese corpo sia in presenza di una crisi economica iniziata nel 1781 e che perdurava da quasi otto anni quando egli fu nominato Ministro del Tesoro (11 settembre 1789), sia sotto la duplice lotta fra tentativi di centralismo dei poteri e spinte da parte dei singoli Stati per mantenere le autonomie decisionali sul piano istituzionale ed economico.

La proposta complessiva e organica di Hamilton, realizzata a partire dal 1791, poggiava sull’idea di creare una potente e organica politica industriale favorendo un ampio mercato nazionale competitivo con le potenze economiche del momento e creando le condizioni nelle quali l’espansione del capitalismo industriale potesse operare senza impedimenti di sorta. La prima di queste condizioni doveva essere la realizzazione di una forte struttura bancaria centrale in grado di generare una radicale subordinazione degli interessi agricoli a quelli industriali e capace di favorire la stessa industrializzazione dell’agricoltura. Un sistema bancario con tali caratteristiche doveva tenere conto che il dollaro era diventato la moneta comune solo dal 1785 e per il quale si trattava di procedere alla costituzione di una Zecca, in modo che la politica monetaria e quella del credito fossero coordinate.

Per raggiungere questo obiettivo era indispensabile che il governo federale si facesse carico di tutti i debiti interni ed esteri e dei certificati di prestito ereditati dalla guerra con lo scopo di creare un unico debito nazionale coperto dall’emissione di obbligazioni federali con il medesimo valore nominale dei vecchi debiti, in modo da far sì che i grandi finanzieri creditori accettassero almeno in parte moneta locale svalutata, costringendoli così a pagare una fetta delle spese di guerra. I pagamenti regolari degli interessi sul debito riconvertito avrebbero dovuto essere finanziati dalle entrate del nuovo governo ricavate da dazi doganali, una protezione alle nascenti manifatture del New England, e dalle imposte indirette in generale. Nel caso non si fosse ancora raggiunto il pareggio di bilancio, si sarebbe ricorsi a una ampia e ben organizzata campagna di vendita di terre demaniali federali, il cui ricavato avrebbe consentito di ripagare quote del debito federale e attuare anche una politica di lavori pubblici.

Hamilton era ben consapevole che un simile progetto necessitava del fatto che gli affari finanziari federali venissero gestiti da una Banca Centrale a capitale misto, pubblico e privato, in grado di garantire il credito e così per raggiungere l’obiettivo della ristrutturazione del debito diede vita a una Zecca e a una Banca Federale (l’abbozzo dell’attuale Federal Reserve) con capitale misto necessaria al governo nelle sue operazioni di collocamento di titoli del debito pubblico e in grado di riscuotere i tributi nelle varie parti del paese tramite le proprie filiali. Questi titoli sarebbero diventati la base del sistema creditizio nazionale. Ed è così che gli Stati Uniti misero le basi per diventare il paese a minore rischio di credito al mondo, creando un sistema di investimento per gruppi finanziari americani, ai quali mancavano le alternative sicure per gli investimenti, di cui godevano invece gli europei.

La strategia di Hamilton risultò vincente: il debito venne risanato generando un dilagante ottimismo, che di lì a poco porterà a una forte crescita economica.

Veniamo a noi, a oggi e all’Europa.

È indubbio che il brand Europa non gode di buona salute e ricorda l’Angelus Novus di Walter Benjamin: un corpo volto al futuro ma uno sguardo indirizzato al passato.

Certo è che alcune linee di indirizzo si possono ricavare dalle “lezioni” di Hamilton.

In primo luogo si tratta di spostare culturalmente e praticamente l’ottica imposta da più di trent’anni di egemonia culturale del monetarismo, dalle questioni della moneta e della finanza a quelle dell’economia industriale e dei servizi, riconducendo moneta e credito nell’alveo di supporto a queste ultime e limitando con vincoli molto stringenti sul piano normativo (leggi ad hoc da tempo invocate da più soggetti e Istituzioni) e fiscale (tassazione unica per tutta l’Europa) la speculazione finanziaria.

Questo cambiamento può avvenire solo se si prospetta e si propone (anche con una comunicazione ad hoc) un grande progetto per tutta l’Europa. Si tratta di dare vita a uno sviluppo che adotti tre “gesti”: la cura, la cultura, la connessione (relazioni); gesti che possono rappresentare le tre braccia del cambiamento. Si tratta di dare vita a un potente messaggio di riqualificazione identitaria e non è necessario andare lontano per trovare le radici di questa opportunità. Infatti, da sempre il nostro continente si è contraddistinto per lo sviluppo del welfare, proprio quell’“oggetto” che in questi anni gli organismi europei, l’Fmi e la politica economica mainstream hanno imposto di smantellare. Ebbene, proprio il welfare può rappresentare il volto dell’Europa, il suo Angelus Novus.

Il nostro Continente ha una tradizione e una storia specifica legata ai beni e servizi per il welfare (cura) e inoltre è, letteralmente, un museo a cielo aperto (cultura). Si tratta di fare dell’insieme degli Stati membri il luogo mondiale all’avanguardia nelle infrastrutture e nelle reti telematiche (connessione), nei servizi per la cura delle persone – dall’infanzia alla quinta età –, nella cultura e nell’arte. Non rinunceremmo così alla nostra specificità, ma semmai mostreremmo al mondo un modello efficace ed efficiente in questi ambiti. Un modello che deve prevedere l’integrazione delle competenze all’interno del Continente con risparmi, economie di scala, utilizzo e valorizzazione delle esperienze qualificate in atto nelle infrastrutture industriali e nei servizi e che deve puntare all’incentivazione della ricerca, allo sviluppo e alla formazione integrando competenze e finanziamenti. Al pubblico deve essere lasciato il compito dell’indirizzo, la gestione di alcune infrastrutture cardine, mentre la ricerca e le realizzazioni nevralgiche possono vedere anche l’apporto dei privati e all’iniziativa privata dovrebbe essere attribuito il compito di declinarne gli aspetti e le attività concrete.

La seconda lezione hamiltoniana è quella connessa ai debiti. Senza mettere in discussione l’Outright Monetary Transaction, il famoso scudo anti-spread, e senza rinunciare all’idea degli Eurobond formulata più volte e in più versioni da economisti come Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio sulla scia degli Usabond di Hamilton, vorrei andare oltre: i debiti degli Stati fino ai limiti dei parametri di Maastricht dovrebbero essere convogliati in un unico fondo Europeo sul quale emettere Eurobond Heavy. Per i debiti eccedenti i parametri di Maastricht (anche questi andrebbero comunque rivisti) ciascuno Stato dovrebbe provvedere al loro rientro con misure consone alla propria storia economica e alla proprie disponibilità finanziarie, entro un tempo definito. Si tratta quindi non di dare vita a una Bad Bank o a una Good Bank, bensì di rendere comune il Good Debit.

La terza lezione hamiltoniana va nella direzione di ridefinire ruoli e compiti del Sistema bancario europeo nel senso che in questi giorni sta prendendo corpo con le decisioni dell’Ecofin e l’affermarsi del “modello Cipro”, che segna il passaggio dal bail out al bail in: prima i costi del salvataggio delle banche si scaricavano all’esterno (sulla fiscalità generale), ora ricadranno in primo luogo su azionisti e creditori, con tutti i rischi connessi agli investimenti e alla fuga possibile dei risparmiatori “privilegiati” dalle banche. Dall’altro è necessario ampliare potere e compiti della Bei in modo che diventi il braccio operativo della Bce, così che siano le politiche industriali e dei servizi a condizionare l’operato del credito e della finanza e non viceversa.

Si tratta di un sentiero accidentato in un percorso che però almeno propone una direzione.

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