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Ilva, un altro acciaio è possibile
Il dramma di Taranto non era inevitabile, e la chiusura non è un destino. Pubblichiamo la prefazione del segretario della Fiom al libro di Vincenzo Comito e Riccardo Colombo (ed. Gli Asini)
La ricerca condotta dalla campagna Sbilanciamoci! sulla situazione e le prospettive dell’Ilva – curata dai professori Vincenzo Comito e Riccardo Colombo – conferma la necessità di uno sguardo complessivo su quello che è successo negli ultimi anni in questa fabbrica. Nel contempo segnala un’urgenza: un’inversione di rotta dei comportamenti e dell’azione di questo gruppo industriale, le cui responsabilità per la salute e l’ambiente della città di Taranto sono sotto gli occhi di tutti.
Oggi, a Taranto come in Italia, si deve trovare una soluzione al disastro dell’Ilva. Bisogna poter lavorare senza inquinare. Questo è un problema generale, che riguarda tutti: imprese, sindacato, governo, enti locali. Anche la Fiom vuole dare un contributo per affrontare questa sfida. Non dobbiamo essere ipocriti: il problema dell’inquinamento non riguarda solo Taranto, ma tutto il paese. Ma a Taranto il problema – a causa dell’irresponsabilità del’Ilva e della latitanza per tanti anni dello Stato – assume una particolare gravità. Tutti dobbiamo interrogarci. Ci possono essere state delle situazioni e delle responsabilità che riguardano anche una parte del mondo del lavoro e, se si vuole produrre un cambiamento, dobbiamo ricostruire una capacità autonoma di proposta e mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Quello che è successo nell’estate del 2012 – con gli scioperi e le mobilitazioni contro l’Ilva – è un importante segnale.
Il problema non è se i lavoratori stanno con questa o con quella organizzazione: la novità degli ultimi mesi è che i lavoratori stanno ragionando con la loro testa e hanno smesso di essere succubi dell’azienda. Il 30 marzo del 2012 a Taranto 7-8mila lavoratori andarono, con i pullman pagati e organizzati dall’azienda, a manifestare contro la magistratura. Oggi la situazione è cambiata. Gli operai si rendono conto sulla loro pelle della drammatica situazione che stanno vivendo e sono consapevoli del fatto che il loro lavoro al’Ilva può essere dannoso – per la loro salute e per quella dei loro amici e parenti che vivono a Taranto.
La salute non si deve svendere, anche di fronte a una crisi economica e al rischio di perdere il posto di lavoro. Non bisogna però lasciare gli operai da soli. La responsabilità delle forze politiche, delle istituzioni e del governo è centrale ed è fondamentale per tutelare le persone in questi momenti di crisi così drammatica.
La risposta al problema dei lavoratori dell’Ilva di Taranto non sta nel considerare questo dramma come un problema di pochi, ma come un problema di tutti: delle istituzioni e del paese. E all’Ilva – come ad altri gruppi industriali- bisogna dire che l’organizzazione dell’impresa e del lavoro non riguarda solamente i proprietari e i manager, ma è un problema che investe l’intera collettività e principalmente i lavoratori. Il lavoro – e come si lavora – non è una gentile concessione del proprietario dell’azienda ma è un diritto, e i profitti (qui a Taranto ottenuti sulla pelle e sulla salute della gente) vengono dopo i diritti.
Non è vero che l’unico modo di produrre l’acciaio è quello che sta utilizzando l’Ilva. Questo è falso. È possibile farlo in modo diverso. Ed è dimostrato dall’esperienza di tanti altri paesi. È possibile – stabilendo un rapporto proficuo con il mondo della ricerca, della scienza, delle università – pensare a nuove modalità produttive dell’acciaio, rispettose dell’ambiente, della salute, del lavoro, delle persone. Il comparto siderurgico in Italia (e anche quello dell’automobile) ha bisogno di un salto culturale e tecnologico per essere all’altezza delle nuove esigenze. In particolare, l’Ilva di Taranto ha preferito i facili profitti (a scapito della salute e del lavoro) piuttosto che investire in una siderurgia moderna e sostenibile.
Ci vuole una nuova cultura industriale, che non viene semplicemente da nuovi investimenti delle imprese, ma anche un cambio di mentalità e di consapevolezza: una cultura fatta di buone relazioni con il sindacato, di rapporti organici con il mondo della ricerca, di sensibilità ai temi dell’ambiente, di collaborazione con la comunità locale. Insisto: in questa nuova cultura industriale dobbiamo coinvolgere i lavoratori, e stimolarli a ragionare con la loro testa e a essere autonomi.
Il dramma dell’Ilva non era inevitabile. Non è vero che – aziende, multinazionali, gruppi industriali – si sono comportati tutti come l’Ilva. In questi anni l’Ilva ha prosperato e ha accumulato significativi profitti perché poteva vendere l’acciaio a un prezzo più basso e lo poteva fare perché – risparmiando così molti soldi – non aveva investito nel progresso tecnologico e nella ricerca al fine di rendere ecologicamente sostenibili le sue produzioni. Non sono stati fatti investimenti in questa direzione e nello stesso tempo l’occupazione è calata e la produzione è aumentata. Nessuno di noi pensa che l’azienda possa vivere senza profitti, ma non si possono fare profitti senza investimenti nel progresso tecnologico delle produzioni, quando questo è necessario per garantire la salute dei lavoratori e dei cittadini e un ambiente non inquinato.
Senza investimenti degni di questo nome, il problema dell’Ilva non si risolve. In questi anni l’azienda non ha rispettato le regole ambientali, e questo non è più possibile. Dare una prospettiva all’Ilva per i prossimi quindici anni significa assumere come vincolo per le produzioni e il sistema industriale gli investimenti per la tutela dell’ambiente e della salute. Questo riguarda non solo Taranto ma tutto il paese. Gli investimenti per l’Ilva sono nell’ottica non di qualche centinaio di milioni, ma – come ricordato nella ricerca di Sbilanciamoci! – di almeno 3-4 miliardi di euro. E se non ci sono abbastanza soldi privati (anche se l’Ilva deve reinvestire in sicurezza i profitti realizzati in questi anni), allora serve l’intervento delle istituzioni e dello stato. Mi sembra questo un punto fondamentale.
Bisogna domandarsi se la famiglia Riva è in grado e ha la credibilità per garantire un processo di investimenti e di riorganizzazione del gruppo Ilva.
La Fiom considera necessario un intervento pubblico con un ingresso anche transitorio nell’assetto societario, e sarebbe utile rivolgersi anche agli imprenditori siderurgici del nostro Paese per sollecitare un loro intervento e gestire una prospettiva strategica per le produzioni di acciaio in Italia. Noi dobbiamo difendere il nostro sistema industriale e anche la nostra produzione d’acciaio (si tratta almeno di 40mila posti di lavoro nel settore) da cui dipende la produzione di tanti altri beni: le automobili, i telefonini, i treni. Si tratta di difendere i lavoratori, ma anche la prospettiva industriale di un paese. Non può essere la magistratura che fa la politica industriale, sono d’accordo, ma dove sono coloro che dovrebbero farla? Chi fa la politica industriale oggi in Italia? Dove sono le sedi dove si discute di scelte che riguardano le prospettive delle nostre fabbriche? Da anni i governi del nostro paese non hanno una vera politica industriale e lasciano fare al mercato. Questo è sbagliato. Abbiamo crisi di stabilimenti come quelle di Terni, di Piombino e di Trieste che non vengono affrontate: dobbiamo affrontare l’emergenza, ma anche uscirne con una vera politica industriale e una ripresa degli investimenti privati e pubblici.
Dobbiamo evitare le contrapposizioni tra e con i cittadini e i lavoratori. Serve coinvolgere democraticamente tutti: non è facile. Siamo di fronte una situazione complicata e non esistono vie di fuga semplici. Serve una piattaforma dei lavoratori che apra una vertenza verso l’azienda, centrata sul tema degli investimenti necessari per tutelare la salute e il lavoro.
Vogliamo esprimere il nostro parere prima che le decisioni vengano prese e vogliamo mettere al centro del dibattito la questione di come si esce dalla crisi con un nuovo sistema industriale. I problemi sono interconnessi. Se in Italia crolla la produzione di auto o entra in crisi il settore dell’elettrodomestico, allora questo si ripercuote anche sulla produzione dell’acciaio, con effetti a catena gravissimi.
La questione, dunque, non è solo l’Ilva, ma le politiche industriali di cui il nostro paese ha bisogno. Stiamo correndo il rischio di diventare la provincia di grandi imprese multinazionali o di altri paesi che si muovono in una logica di competitività sui costi e quindi di limitazione dei diritti dei lavoratori. Ecco perché quando discutiamo di Ilva non parliamo solo di Taranto o di quelle migliaia di lavoratori che stanno nello stabilimento. Parliamo del paese.
La Fiom non accetta lezioni. Non abbiamo mai firmato e mai firmeremo accordi che negano a un’altra organizzazione la possibilità di entrare in uno stabilimento e limitano le libertà di chi lavora, come è successo a nostro danno con la vicenda della Fiat. Non accettiamo ricatti e non vogliamo che sia messo in discussione il diritto delle persone di scioperare e di organizzarsi con il proprio sindacato.
La democrazia è una cosa seria e anche l’autonomia di un sindacato lo è: un sindacato deve essere autonomo e prendere decisioni insieme alle persone che rappresenta. Se il sindacato si fa invece sostenere o condizionare dalla volontà dall’impresa, allora dobbiamo preoccuparci. Così ho trovato singolare che, tempo fa, a un incontro del governo sulla Fiat, ci fossero solo il segretario della Fiom e della Cgil, mentre i responsabili della Cisl e della Uil – ascoltando i consigli di Marchionne – non si sono presentati con la motivazione che loro con la Fiat ci parlano direttamente. Quando si arriva a questo punto, non ci sono lezioni da dare a qualcuno e bisognerebbe riflettere su quello che sta succedendo. Comportamenti di questa natura stanno mettendo in discussione l’essenza stessa del sindacato confederale.
In molti sostengono che per uscire dalla crisi e per aumentare la competitività si debba cancellare il contratto nazionale di lavoro, riducendo i diritti; c’è addirittura chi teorizza che la possibile soluzione stia nell’aumentare gli orari di lavoro. Quelli che criticano la Fiom sono gli stessi che, sedendo al tavolo della trattativa con Federmeccanica, discutono di nuove condizioni contrattuali (che riguardano anche il settore siderurgico) che prevedono che gli aumenti dei minimi non andranno a tutti nella stessa misura, che i primi tre giorni di malattia non devono più essere pagati, che l’orario individuale deve essere aumentato e che le 250 ore di straordinario – che oggi sono un limite individuale – devono diventare un obbligo per il lavoratore. Quei sindacati che ci definiscono “non coerenti” sono gli stessi che stanno cancellando i diritti dei lavoratori e l’esistenza del contratto nazionale, nonché la possibilità stessa per i lavoratori di poter contrattare la propria condizione. I sindacati si dividono, ma il fronte delle imprese rimane unito. Quello che doveva essere un caso “unico” e “non ripetibile” – Somigliano – grazie a Federmeccanica sarà esteso a tutti i lavoratori. Dobbiamo lavorare per l’unità e la condizione per ricostruirla è la democrazia, cioè il diritto per le lavoratrici e i lavoratori di votare, impedendo così gli accordi separati.
Oggi è il momento di un grande accordo per il lavoro e la democrazia. Per l’Ilva serve una piattaforma comune. Non bisogna dividere ulteriormente i lavoratori, bisogna invece lavorare per l’unità, anche con la città. Sono necessari un dialogo e un confronto permanenti con i cittadini di Taranto, e non è più possibile trovarsi di fronte alla scelta tra ambiente e lavoro. L’impresa deve convincersi che ha una responsabilità sociale per quello che ha causato ai lavoratori e alla città, e che deve fare tutti gli investimenti necessari per mettere fine a quello che è il punto centrale della questione: l’Ilva sta producendo inquinamento all’interno e all’esterno.
Siamo contrari alla chiusura dell’Ilva e – magari – a soluzioni assistenziali come la concessione di un reddito di cittadinanza di illimitata durata a chi rimane, a causa della chiusura, senza lavoro. Si tratta per noi di una vertenza paradigmatica che interroga il futuro della politica industriale del nostro paese, l’organizzazione del lavoro nelle aziende, il rapporto tra economia e ambiente.
C’è la necessità di rimettere al centro i diritti. Non siamo semplicemente davanti – nel caso dell’Ilva – a un cattivo imprenditore, bensì a un modello di fare impresa che non ha nulla a che fare con la qualità del lavoro, ma solo con l’arricchimento di manager e proprietari. I quali dicono che la salute e la sicurezza sono un costo. Così non si può nemmeno iniziare la discussione. Noi invece chiediamo che vengano sostenute quelle imprese che fanno investimenti nell’innovazione, nell’ambiente, nella sicurezza, nel lavoro, anche ragionando sulla riorganizzazione del lavoro e la riduzione dell’orario.
La difesa del lavoro e dei diritti dei lavoratori, mai come adesso, sta assieme alla lotta per un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la qualità degli investimenti e delle produzioni.
I diritti sono fondamentali: ecco perché siamo contrari alle leggi di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e dell’articolo 8 che permette la deroga al contratto nazionale e alle leggi del nostro Stato: sono scelte sbagliate che – anche con la raccolta di firme per i referendum – vogliamo contrastare e ribaltare. Non dobbiamo lasciare nessuno da solo, dobbiamo essere tutti parte di un grande progetto sindacale di cambiamento e di difesa dei lavoratori.
Noi abbiamo una caratteristica unica che dobbiamo difendere a tutti i costi: siamo indipendenti, viviamo solo dei contributi economici che ci danno gli iscritti. La Fiom non è in vendita e nessuna azienda può pensare di comprarci e di condizionarci. È qui la ragione della nostra dignità e della credibilità che abbiamo presso i nostri iscritti, le lavoratrici e i lavoratori.
È finito il tempo della compravendita, è arrivato il tempo di assumersi le proprie responsabilità. È questo il messaggio che vogliamo mandare anche all’Ilva. I lavoratori dell’Ilva devono sapere che ci avranno sempre al loro fianco e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci e difendere l’idea che ambiente e economia, salute e lavoro non sono incompatibili, ma devono poter convivere. A Taranto, come in Italia.
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