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Sentenza Sallusti, qualcuno l'ha letta?
La reputazione del direttore del Giornale condannato per diffamazione; e quella delle vittime del suo articolo. Leggendo la sentenza della Cassazione, si capisce che Dreyfus è lontano
Ora che è diventata pubblica, ho letto attentamente la sentenza della Cassazione che ha condannato in via definitiva Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale. Qualche settimana fa, quando era stato reso noto il dispositivo, una parte importante della stampa aveva mostrato di disapprovare la sentenza. In tanti, senza conoscere gli articoli incriminati e senza sapere niente della sentenza, hanno parlato di «medioevo», parola usata tra gli altri anche dal manifesto.
Sallusti protesta per la gravità della sentenza che prevede il carcere; esclude con sdegno la possibilità di accettare l'alternativa rieducativa nelle strutture di uno stato che disprezza. Ciò che più l'offende è però l'attacco alla sua reputazione di fronte alla famiglia, la prole, le persone amiche, il mondo professionale, contenuto soprattutto nelle parole: spiccata capacità a delinquere. Mi si dà allora, prorompe, del «criminale patentato», del mafioso, dell'assassino?
È da notare che la capacità a delinquere si presenta nella sentenza d'appello che a sua volta non fa che citare l'art. 133 del codice penale; è una delle modalità con cui si misurano aggravanti e attenuanti; in altre parole si tratta di un modo di dire. Sallusti ha un palmarès di sei condanne per mancato controllo direttoriale; a tirarne le conseguenze è il tribunale d'appello il quale usa quell'espressione per spiegare che le attenuanti non erano sufficienti. La Cassazione non fa che riprendere la frase.
Sallusti ci tiene giustamente alla sua reputazione; lo ribadisce però utilizzando quasi gli stessi concetti, le stesse parole che la sentenza – le sentenze – utilizzano per mostrare il danno alla reputazione subito dal magistrato Giuseppe Cocilovo, accusato di aver condannato a morte un bambino ancora non nato. È ormai noto l'articolo firmato Dreyfus e comparso il 18 febbraio 2007 su Libero, quotidiano allora diretto da Sallusti. Il caso riguarda una ragazza che ha deciso di abortire, senza che il padre ne sia al corrente, e l'indispensabile intervento del giudice al fine di rendere possibile la procedura, secondo la legge. Solo che Dreyfus esagera, come dice lui stesso: «Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, per il ginecologo e il giudice. Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l'altro (l'altra in realtà) costretto alla follia...»
Tutti sanno ormai chi sia la persona celata sotto lo pseudonimo di Dreyfus. Un ex giornalista radiato per spionaggio: Renato Farina. Nome in codice «Betulla». Farina, oggi deputato del Pdl, è il terzo di un triangolo professionale costituito oltre che da lui e da Sallusti anche da Vittorio Feltri che ha diretto o fondato entrambi giornali in questione. I tre – giornalisti di successo – si aiutano e alternativamente si scambiano colpi bassi. In effetti – che si tratti di un aiuto, di uno sgambetto o di uno scoop – è Feltri che rivela l'identità di Dreyfus (è molto irritante vedere quel nome usato da una spia per giunta codina).
Il direttore allora di Libero e ora del Giornale si inquieta perché la condanna lo colpisce quando non è lui l'autore dell'articolo che invoca la pena di morte. Il fatto è che il suo disappunto va a urtare la procedura dei processi. La Cassazione non può intervenire che sulle questioni di diritto e di applicazione corretta di esso; non sul fatto che è stabilito per sempre nei primi gradi di giudizio. Non è compito suo e oltretutto non può riaprire il procedimento per stabilire chi sia l'autore effettivo dell'articolo. Sallusti o meglio i suoi difensori avrebbero dovuto toccare il punto in primo grado o ancora in appello. Poi, la verità processuale era definita una volta per tutte.
Si può aggiungere che indicare l'autore dell'articolo in esame avrebbe portato gravi conseguenze al direttore; non da parte dei magistrati, ma piuttosto da parte della corporazione giornalistica che aveva già avuto modo di sanzionare il direttore di Farina, giornalista radiato per spionaggio, con sospensione di due mesi. L'Ordine si era espresso con molta determinazione: «Con la sua condotta ha compromesso la dignità professionale». Una ricaduta nella stessa mancanza avrebbe comportato una penalità di molti mesi e forse di anni. Il direttore, impegnato in una campagna politica nei confronti della magistratura, non poteva oltretutto cedere su questo punto, lasciare il suo posto di combattimento, dovendo mantenere nel tempo la faccia feroce tanto apprezzata dai suoi lettori. Anche se Betulla, ormai, era fuori dal pantano, avendo in primo luogo ottenuto, con dimissioni anticipate, che la sua radiazione fosse cancellata dalla Cassazione; e in secondo luogo essendo stato premiato, per la sua dedizione o per altri certamente validi motivi, con un seggio Pdl in Parlamento.
Un'ultima questione riguarda la pena detentiva. Un giornalista in tale disgrazia, perfino Sallusti, mi fa venire in mente, Daniel De Foe messo alla gogna. Ho avuto per le mani una stampa, credo coeva, che rappresenta l'autore di Robinson Crosue con le mani e la testa nei ceppi come punizione per la sua incomprimibile attitudine a colpire la reputazione dei suoi nemici politici (o dei nemici politici dei suoi finanziatori); e i cittadini di Londra che invece di colpirlo con scarti ed escrementi lo applaudono e gli gettano fiori.
Inutile ricordare che Antonio Bevere - estensore della sentenza di Cassazione - in tutta la sua vita di magistrato ha cercato di tenere lontani dal carcere tutti, soprattutto i meno abbienti, i senza difesa, gli stranieri. Il fatto è che, di nuovo, Sallusti ha replicato con sicumera, ed è stato difeso con scarso successo, senza spiegare alcunché e senza venire a patti. Si può immaginare che gli interessasse soprattutto condurre un altro tempo della sua battaglia contro i giudici e ritenesse di vincere in ogni caso: tanto se assolto, quanto se condannato.
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