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Decreto 109. Sans papier alla ricerca del modo per vivere in Italia

05/08/2012

È un condono per chi sfrutta il lavoro migrante, un nuovo gettito per le casse statali, ma la regolarizzazione è difficile e il varco aperto molto breve

Chi dice 300 e chi 500mila, sono comunque tantissimi i sans papier che in questi giorni cercano informazioni su come utilizzare il varco per la regolarizzazione aperto dal decreto legislativo 109 del luglio scorso. Si tratta tra l’altro di trovare i modi per non incorrere negli imbrogli e nelle delusioni subite da chi, in altre regolarizzazioni, ha corso il rischio dell’autodenuncia senza che poi il datore di lavoro onorasse l’impegno a un contratto regolare, o da chi per averlo ha dovuto accollarsi una parte dei costi. Secondo l’ex ministro Roberto Maroni – fuoco e fiamme contro un provvedimento di attuazione della direttiva europea 2009 sullo sfruttamento degli immigrati irregolari – il decreto 109 si configura come una irresponsabile sanatoria. Da combattere a ogni costo e con qualsiasi mezzo. La verità è invece che il provvedimento porta il segno di una grave incapacità del governo, e della politica che lo sostiene, di praticare una saggia discontinuità con le politiche emergenziali e restrittive. Dal 1998 (e sempre peggio dal 2002 in poi) esse pretendono in modo del tutto irrealistico, perché basato su un impossibile incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro, di disciplinare i flussi migratori. Non solo, alcuni dei criteri utilizzati e dei requisiti richiesti limitano fortemente il bacino di chi potrà accedere alla regolarizzazione, introducendo per di più disparità di trattamento che daranno certamente luogo a un’infinità di controversie giurisprudenziali.

Non è del resto con l’inasprimento delle sanzioni contro i datori di lavoro che approfittano degli irregolari che si può venire a capo di un problema che trae origine da una normativa che facendo discendere la regolarità dal possesso di un regolare contratto di lavoro, inchioda in una condizione di oggettiva ricattabilità il lavoratore privo di permesso. Non se ne è venuti a capo finora, nonostante la previsione di reclusione da 6 mesi a 3 anni e di sanzione di 5.000 euro per ogni straniero impiegato irregolarmente, ed è del tutto improbabile che possa succedere d’ora in poi nonostante l’aggravio da un terzo a metà delle pene nei casi di “particolare sfruttamento” e la sanzione aggiuntiva, applicabile dal giudice, equivalente al pagamento di un’imposta pari al costo del rimpatrio del lavoratore. Né si può ragionevolmente ipotizzare che il sistema di sfruttamento dei migranti irregolari possa essere messo in crisi dalla carota di un “permesso umanitario” di 6 mesi – prorogabile fino a un anno – che il giudice può concedere a chi denunci il datore di lavoro o cooperi attivamente al procedimento penale. Denunciare, si sa, significa perdere un lavoro che oggi è sempre più difficile ritrovare, un rischio troppo alto per correrlo a cuor leggero.

Non è, comunque, su questi contenuti del decreto che si concentra l’attenzione dei nostri sans papier, ma sulla “norma transitoria” dell’articolo 5 in cui si delinea la possibilità di emersione del lavoro irregolare di qualsiasi tipo, quindi non limitata al solo lavoro domestico e di cura come fu nel 2009. A poterne fruire sono gli immigrati entrati in Italia prima del 31 dicembre 2011. Le domande possono essere digitate tra il 15 settembre e il 15 ottobre, “senza contingente”, e quindi senza l’angosciante click day delle regolarizzazioni precedenti. L’emersione, che estingue i reati e gli illeciti amministrativi dei datori di lavoro, comporta il pagamento di 1.000 euro una tantum (erano 500 nella sanatoria per badanti del 2009) più il versamento di almeno sei mesi di quanto non pagato in termini di salario, contributi, tasse. Sono esclusi dal condono i datori di lavoro che sono precedentemente venuti meno all’impegno di un contratto regolare, quelli che hanno assunto in nero migranti minori, quelli che hanno sfruttato più di tre lavoratori, i già condannati per tutto ciò. Ma i problemi – di principio e di praticabilità – sono davvero troppi. Tra i primi c’è, puntualmente denunciato dai giuristi che si occupano di immigrazione, l’esclusione dei lavoratori dalla possibilità di dare avvio alla richiesta di emersione. Scelta discriminatoria perché a fronte dell’esigenza di combattere il lavoro nero non pone sullo stesso piano i due soggetti interessati, datori di lavoro e lavoratori, ribadendo quindi proprio quella subordinazione e ricattabilità degli sfruttati all’origine di molti degli abusi verificatisi nelle precedenti regolarizzazioni; compreso lo scandalo di una tantum, oneri contributivi, e perfino previdenziali, formalmente a carico dei datori di lavoro, in realtà in molti casi sostenuti dai lavoratori stessi. Ci sono poi, a limitare l’area di chi può fruire del provvedimento, una serie di esclusioni francamente poco giustificabili. Per esempio l’esclusione degli impiegati a tempo parziale, anche quando la somma di più rapporti di lavoro porti a un monte ore complessivo pari o superiore a quello di un lavoro regolare a tempo pieno. O il requisito obbligatorio, per la regolarizzazione dei lavoratori in nero del settore domestico, di un rapporto di lavoro di almeno venti ore settimanali. Analogamente, sempre nello stesso settore, l’esclusione dalla possibilità di assumere un lavoratore di quei datori di lavoro che abbiano un reddito inferiore a 10.800 euro, mentre è noto che sono molti gli anziani al di sotto di questa soglia che possono usufruire di badanti solo perché sono i parenti a pagare. Una clamorosa caduta di buon senso – avarizia politica, ottusità burocratica? – c’è inoltre dove si stabilisce che, per dimostrare la presenza in Italia al 31 dicembre 2011, è indispensabile una documentazione emanata da un ente pubblico. Non lo sanno, i tecnici del governo, che gli “invisibili” evitano perfino il pronto soccorso per paura di essere denunciati e rispediti da dove sono venuti? Non conoscono gli effetti dell’obbligo di denuncia degli stranieri irregolari da parte dei pubblici ufficiali introdotto – con l’esclusione inizialmente non scontata dell’istruzione e della sanità – con la legge 94/2009, e finora mai modificato? Non è grottesco che di quella indispensabile documentazione a cura di un ente pubblico siano oggi in possesso più di altri i migranti oggetto di provvedimenti di espulsione non eseguiti, quelli che hanno avuto denunce o multe, quelli che sono stati coinvolti in incidenti, quelli che non hanno potuto evitare il ricovero in ospedale? Un requisito assurdo, che reintroduce strane e ingiustificabili disparità di trattamento già spazzate via anni fa dalla giurisprudenza e di cui non si sentiva proprio il bisogno. Ma si sa che è proprio in questi casi che prosperano, non solo nel campo dell’immigrazione, le pratiche più o meno illegali – e mai gratuite – indirizzate all’aggiramento. Si poteva sperare che un governo tecnico – e un ministro dell’immigrazione che viene dal mondo della solidarietà e del volontariato – almeno queste inutili scivolate ce le risparmiassero.

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