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Finta competizione, veri monopoli

04/05/2012

Oligopoli, alleanze tacite, forme di collusione: la crescente concentrazione del potere economico-finanziario produce effetti deleteri sull'economia globale

Nei giorni neri delle borse hanno agito gruppi finanziari, grandi banche, fondi d’investimento. Si sono mossi attori come Goldman Sachs e Morgan Stanley. Ma in primo piano si sono udite le famose agenzie di rating emettere giudizi “inappellabili” su stati, società, istituti di credito: realtà di cui esse stesse sono spesso azioniste. Standard & Poor’s, ad esempio, fa parte del gruppo editoriale Mc Graw Hill (che pubblica fra l’altro Business Week); e a sua volta Moody’s è controllata da Warren Buffett, editore del Washington Post e presente in settori diversi direttamente o indirettamente. La grande speculazione possiede giornali, televisioni, agenzie di rating. E usando mezzi di comunicazione ultraveloci, come vedremo, può anticipare qualunque normale trader. Nessuno osa più sostenere che la borsa segue regole controllate, che gli scambi sono aperti a tutti e che il mercato finanziario trova i suoi naturali equilibri. Ma sarebbe necessario a questo punto rendere ancora più visibile il livello di concentrazione di tutte queste attività, con il loro intrecciarsi in una rete invisibile di partecipazioni incrociate. Tra le grandi società finanziarie, dominanti l’economia mondiale dopo la fine della società industriale, si è registrato un succedersi di fusioni e acquisizioni, di alleanze e cartelli. Il fenomeno, avviato negli ultimi vent’anni del novecento è continuato nel nuovo millennio attraversando crisi, riprese, accelerazioni. In uno dei momenti più critici degli ultimi dieci anni, l’incrudirsi della crisi globale è stato sventato con la nota operazione di salvataggio da parte dell’amministrazione Obama. Tale operazione era diretta a non peggiorare ulteriormente una situazione generatasi già a partire dalla deregulation reaganiana e aggravatasi con l’abolizione, negli anni ’90, della separazione tra funzioni bancarie tradizionali e operazioni d’”investimento”. Il sovrapporsi di quelle funzioni (cui oggi si vorrebbe porre rimedio) aveva favorito una maggior larghezza nel concedere prestiti per acquisti anche immobiliari nonostante la perdurante frenata dei salari. Si può incidentalmente ricordare che senza tale indebolimento dei redditi da lavoro la famosa crisi dei mutui non sarebbe esplosa in modo così devastante.

L’intervento di salvataggio, pur necessario nell’immediatezza per scongiurare il peggio, si era accompagnato a ulteriori processi di concentrazione. Ad esempio, aveva favorito l’acquisizione di banche in difficoltà da parte di grandi gruppi come J.P.Morgan, Bank of America o Goldman Sachs. Operazioni che sembravano riproporre scenari da classico capitale monopolistico, comprendendo anche la presenza pubblica nella finanza privata. D’altra parte, “fondersi per meglio competere” è un motivo ricorrente nell’ideologia e nella pratica dell’economia liberista. E nel suo realizzarsi sembra condurre la competizione a rovesciarsi nel proprio opposto.

Dopo alterne vicende tale rapporto apparentemente paradossale tra concorrenza e tendenze monopolistiche riprendeva con accelerato vigore. Dopo il 2010, a Wall Street e a Francoforte; nella City di Londra come a Milano Piazza Affari; e così nelle Borse di Parigi e Zurigo; ma anche di Tokyo e delle piazze d’oriente e del mondo intero, la competizione continuava a esprimersi in vari modi e dimensioni. E a rovesciarsi sotto innumerevoli forme. Anche portando vicino a una fusione tra le stesse Borse, come quella tra New York Stock Exchange Euronext e Deutsche Borse, che avrebbe portato fra l’altro a un’ulteriore concentrazione nel campo dei derivati: operazione bloccata almeno temporaneamente dall’Antitrust europeo.

Nel frattempo, il perfezionarsi di nuove tecnologie della comunicazione, fornendo i mezzi per un high frequency trading, permetteva che grandi operazioni speculative si realizzassero in pochi millisecondi, spesso sconvolgendo l’andamento delle borse e accentuandone ulteriormente l’instabilità. L’operatore ultraveloce lucra sul vantaggio di chi conosce in anticipo l’andamento del mercato perché in parte lo influenza.

Infatti, nel quadro di un generale primato del “ritorno a breve”, si nota l’abnorme crescita di veloci operazioni ribassiste (come quelle che hanno più volte contribuito al crollo delle borse europee): manovre speculative che entrano in azione dove e quando i titoli di borsa, o i bond di un paese in difficoltà, vengono indicati come deboli, da agenzie di rating e mezzi d’informazione. L’operatore short seller, vendendo allora velocemente ciò che ancora neppure possiede, lucra proprio su quella debolezza, l’aggrava ulteriormente proprio con la vendita, e poi riacquista a condizioni vantaggiose. Tutto questo approfittando dei millisecondi di vantaggio rispetto ai traders normali. Si può ricordare che sui vantaggi momentaneamente ottenuti da chi in borsa agisce velocemente con un orizzonte temporale limitato, si era già soffermato John Nash, notando come la teoria matematica dei giochi illustrasse appropriatamente gli andamenti dei mercati borsistici.

Come si è visto, nelle svolte del nuovo millennio, i motori finanziari (le grandi banche in primo luogo) potevano crescere, connettersi sempre più, estendersi in una dimensione transnazionale. E acquisire indirettamente una nuova influenza, anche politica. Mentre ciò avveniva, la dimensione industriale manifatturiera sembrava percorrere un’altra strada, venendo scomposta, delocalizzata, ricomposta in continuazione. Il processo avviato conduceva a risultati contrastanti. Le piccole e medie imprese (in un paese come l’Italia ad esempio, caratterizzato in passato dal loro alto numero e dalla loro efficienza) dovevano affrontare difficoltà gravissime senza che dalla politica venissero sufficienti sostegni. Mentre i gruppi industriali di grandi dimensioni e di scala mondiale, la cui componente finanziaria era divenuta predominante, affrontavano il calo dei consumi e le pressioni su costi e prezzi procedendo verso fusioni o “alleanze” che riducevano il numero dei competitori. E nel settore auto, chiusure di stabilimenti e licenziamenti in massa eliminavano la “capacità produttiva in eccesso” (uno degli effetti, fra l’altro, dell’esasperata competizione). Per meglio competere su scala globale, si avviavano collaborazioni nella tecnologia ma si procedeva anche a quelle partecipazioni incrociate che nascondono forme di oligopolio e processi tendenzialmente monopolistici.

Ben sappiamo ormai che il fenomeno di cui discutiamo non si limita alle aperte operazioni di fusione e acquisizione ma percorre le vie poco conosciute della connessione tra società inizialmente concorrenti: principalmente attraverso partecipazioni azionarie incrociate e intrecci di proprietà. Tutto questo ha trovato conferma anche in un’analisi, nota ma meritevole di maggiore attenzione, condotta da ricercatori del Politecnico di Zurigo. Partendo da un database molto serio, che elencava 37 milioni di società in tutto il mondo, una prima operazione selezionava 43.000 corporation transnazionali veramente significative, soprattutto banche. Tra queste poi, un piccolo nucleo di 1.318 unità risulterebbe possedere una posizione davvero strategica. Ma in realtà è una cinquantina di istituti finanziari che controlla il 40% del valore di quello stesso nucleo. Sebbene “proprietà azionaria” non significhi necessariamente “potere decisionale diretto”, esiste comunque un pesante condizionamento che può essere esercitato da quelle società finanziarie su gran parte dell’economia mondiale. La ricerca di cui parliamo ha applicato alle reti societarie modelli matematici che erano stati utilizzati con successo nell’analisi di molti sistemi naturali.

Vediamo ogni giorno le disastrose conseguenze del modello economico dominante, che pur continua a guidare le scelte anche di quegli esperti che a quei disastri dovrebbero porre rimedio. Nel linguaggio ivi adottato si continua a porre l’accento sull’imperativo del competere. Ma senza cogliere le sfumature, le differenze, le controfattualità. Quest’ultime si danno quando nell’acuirsi del confronto competitivo si sviluppano tendenze che possono mutarne lo scenario e l’efficacia. Tendenze al dominio di pochi giocatori, fra loro potenzialmente in grado di stabilire alleanze, cartelli, intrecci di interessi.

Da tali processi dunque può scaturire una struttura di mercato oligopolistica. Dove il numero ridotto dei competitori impone loro una reciproca guardinga osservazione. Generale, da parte di ciascun attore, è un comportamento improntato a scelte razionali fondate su ciò che ci si aspetta riguardo al comportamento delle altre parti in campo; nel presupposto che anche quest’ultime, consapevoli di operare in condizioni di interdipendenza fra concorrenti, adottino linee di condotta razionalmente orientate e coerenti con tale scenario. Se supponessimo che i protagonisti si riducano a due, la situazione potrebbe essere sintetizzata dalla teoria dei giochi come un “dilemma del prigioniero”: dove entrambi, anche a dispetto di eventuali accordi, agiscono con spregiudicato egoismo e diffidenza reciproca e scelgono subito strategie di non collaborazione per non esporsi a una rapida prevaricazione altrui; ma dove, pur scongiurando che uno dei due perda tutto, nondimeno il risultato complessivo è ben poco soddisfacente per entrambi. Questa drammatica interdipendenza strategica si dà in situazioni cruciali, quando la partita si gioca una volta per tutte. Naturalmente si danno numerosi altri modelli di gioco, dove invece di questo drastico schema one shot si rende possibile uno schema che contempla la ripetizione delle opportunità di scelta; e dalla ripetizione può emergere una svolta verso la fiducia e la collaborazione. Risultato questo che (da psicologi, filosofi sociali, teorici del diritto e della morale) viene generalmente giudicato desiderabile nella sfera dell’interagire sociale; perché le relazioni fra individui possono così condurre verso orizzonti pacifici e soddisfacenti per tutti. Troppo poco si riflette però su come la svolta cooperativa possa portare, nel confronto tra oligopoli, verso scenari di alleanze, cartelli, forme di collusione assai poco desiderabili dal punto di vista socio-economico. Scenari in cui la competizione, come del resto abbiamo già osservato, può trasformarsi nel suo stesso opposto, il monopolio. Occorre maggiore consapevolezza di tali tendenze, che possono trasformare in modo inquietante la scena economica planetaria. E in parte già lo fanno.

 

 

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