Home / Newsletter / Newsletter n.172 - 13 aprile 2012 / Intervista a Sennett: la crisi sociale del capitalismo

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Intervista a Sennett: la crisi sociale del capitalismo

11/04/2012

Attività economiche flessibili e strutture sociali fortemente burocratizzate: per il sociologo Richard Sennett sono queste le cause della crisi sociale ed economica

Tra i più noti e stimati intellettuali contemporanei, il sociologo americano Richard Sennett negli anni Novanta ha studiato le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, come recita il sottotitolo di uno dei suoi testi più celebri, L’uomo flessibile (Feltrinelli 1999). Da alcuni anni invece, dopo aver preso in esame il modo in cui l’autorità è organizzata nella sfera pubblica, ha deciso di interrogarsi su quelle pratiche concrete, abilità tecniche e doti sociali che – se esercitate – possono arginare e rovesciare la cultura del nuovo capitalismo. Insieme, appena uscito per Feltrinelli nella traduzione di Adriana Bottini (pp. 336, euro 25), è il secondo volume di una trilogia dedicata a questa ambiziosa esplorazione inaugurata con L’uomo artigiano (Feltrinelli 2009). Ne abbiamo discusso con l’autore, incontrato a Roma nell’ambito di una conferenza della Scuola del Sociale della Provincia di Roma.

Insieme è il secondo volume del “progetto homo faber”, ispirato all’antica idea dell’Uomo come “creatore della vita attraverso pratiche concrete”. Ci spiega meglio il filo rosso che lega i tre volumi?

Come un nome proprio si riferisce a una cosa, una persona o un luogo, così io ho deciso di dedicare tre studi alle pratiche con le quali vengono fabbricati gli oggetti materiali, conformate le relazioni sociali e costruite le città. Nel caso di Insieme, diversamente da altri teorici del capitalismo moderno credo che oggi si assista a una crescente rigidità e burocratizzazione delle relazioni sociali, che le rende “povere”. La capacità “artigianale” di collaborare, di cooperare, dovrebbe essere modellata sul principio dialogico, ma oggi è impedita dal capitalismo moderno. Che non è un capitalismo da “cowboy”, disorganizzato, ma un sistema che prevede una forte concentrazione e formalizzazione del potere, in antitesi alle pratiche concrete della cooperazione, che formano un sistema aperto, al cui interno possano svilupparsi, in modo non meccanico, forme diverse di interazione. Il progetto homo faber ha a che fare con l’idea di un sistema di sviluppo aperto, che liberi le persone dalla rigidità burocratiche del capitalismo.

Eppure i cantori del neoliberismo hanno assicurato finora che il capitalismo flessibile garantisce agli individui maggiori libertà e controllo, liberandoli dai lacci del capitalismo fordista. È solo retorica?

Lo dimostra il fatto che nel mondo del lavoro sia sempre più diffusa, proprio nelle cosiddette organizzazioni flessibili, l’adozione di un sistema universale di business, che prevede l’applicazione di un unico modello di analisi degli input e degli output a tutti i settori economici. Le attività economiche sono flessibili, ma le strutture sociali che le conformano sono sempre più cristallizzate. L’altro lato della medaglia è la nozione che, se si è flessibili, non si è tenuti a essere responsabili verso gli altri. Sta qui la differenza tra la globalizzazione e l’imperialismo: le colonie di un tempo volevano che i soggetti colonizzati incorporassero i modelli culturali dei colonizzatori, mentre oggi questo non avviene più. Come sociologo, una delle cose più interessanti della crisi finanziaria è vedere quanto stupido possa essere il modo in cui gli uomini ai vertici interpretano le relazioni sociali. Non riescono a capire perché la gente se la prenda con loro per aver mandato all’aria intere attività economiche!

Per molti cittadini in effetti la crisi economica, e la difficoltà di trovare qualcuno che se ne assuma almeno in parte la responsabilità, sembrano dimostrare una tendenza del capitalismo finanziario di cui parla nel libro: l’abdicazione all’autorità da parte del potere. Ci spiega meglio?

Il divorzio tra potere e autorità funziona come un meccanismo difensivo per non dover rendere conto agli altri delle proprie decisioni, e riflette la caratteristica peculiare del capitalismo moderno: isolare le persone, affinché non si sentano reciprocamente responsabili. Questa abdicazione viene praticata con la scusa che sia il sistema a operare in quel modo e che quello che ciascuno fa non sia moralmente imputabile. Tuttavia, nel corso dei miei studi su Wall Street mi sono reso conto che persino lì esistono altre forme di capitalismo, che definirei patrimoniali, laddove i “capi” rivendicano il diritto di essere obbediti proprio perché si assumono la responsabilità di prendersi cura dei dipendenti. In Germania questo modello alternativo di capitalismo è molto diffuso, e forse lo è anche nel nord Italia, dove il patron rivendica la sua autorità e il dovere dell’obbedienza in virtù di un rapporto diverso da quello meramente contrattualizzato e monetario.

Secondo la sua tesi, se la collaborazione migliora la qualità della vita sociale, il capitalismo moderno indebolisce le potenzialità umane della cooperazione, dequalificandoci. Cosa intende dire quando scrive che a causa della dequalificazione “dobbiamo ancora diventare moderni”?

Non intendo dire che abbiamo perso la capacità di fare qualcosa, che non possiamo più recuperarla, ma che le circostanze non ci permettono di praticarla. Per riprendere una formula di Bruno Latour, mi interessa capire perché non abbiamo mai imparato a usare gli oggetti di cui disponiamo. Nel libro porto l’esempio di Facebook e di altri strumenti tecnologici: spesso hanno l’effetto di non lasciarci concentrare su ciò che gli altri intendono, ci spingono a interessarci al semplice significato esplicito, non ai presupposti taciti. Nella cooperazione, invece, essere qualificati significa puntare l’attenzione su ciò che gli altri intendono pur non trovando le parole per dirlo. È difficile farlo con Twitter e Facebook, gli strumenti per eccellenza della transazione, non della collaborazione.

La cooperazione può essere intesa come un fine in sé, oppure come strumento strategico in vista di un obiettivo diverso, per esempio la solidarietà politica. Lei scrive che nel Novecento la collaborazione è stata pervertita in nome della solidarietà. Cosa intende?

La “sinistra politica” ha sempre ritenuto che la cooperazione andasse usata come uno strumento per costruire dall’alto l’unità e la solidarietà. Al contrario, la “sinistra sociale” – a cui appartengo – guarda alla cooperazione come a un fine in sé, un modo per creare un legame tra persone che altrimenti non sarebbero mai state insieme, senza per questo neutralizzarne le differenze. È un tipo di esperienza dal basso verso l’alto, che ricorda il caso di Occupy Wall Street. Se si guarda bene, quel che tiene insieme il movimento non è l’unità, ma le relazioni sociali informali – all’interno di una situazione vaga e ambigua –, tra diversi gruppi sociali e professionali, dai vecchi pensionati ai giovani studenti, dagli impiegati ai sindacalisti. È ciò che rende Occupy Wall Street un buon esempio di cooperazione.

In una versione leggermente diversa, questa intervista è stata pubblicata nell'edizione del 7 aprile dell'Unità

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