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Lavoro: meno flessibile, più produttivo
La produttività del lavoro si riduce dal 2001, a causa di contratti atipici, bassi salari e stagnazione degli investimenti. Serve riformare il sistema fiscale e lo Stato sociale
È luogo comune che da molti anni oltre due terzi delle nuove assunzioni in Italia avvengono con contratti variamente atipici che, in larga misura, escludono dalla tutela del welfare chi viene assunto. Il numero dei precari senza tutele è cresciuto a dismisura nell’ultimo quindicennio: oggi, alla soglia dei 29 anni, oltre metà dei cittadini non ha ancora un posto di lavoro fisso, con ben note conseguenze sullo stile di vita e le aspettative sul futuro. E la stragrande maggioranza di queste persone è soggetta a un eccessivo turnover, con durata media di ogni periodo di occupazione continuata inferiore a due anni, inframmezzati da periodi senza né lavoro né indennità di disoccupazione. Ma vi sono anche quasi due milioni di persone, giovani di età 19-30 al momento del primo impiego, “gettate fuori” dal mercato del lavoro da almeno 7-8 anni, dopo un primo periodo di occupazione perfettamente regolare a cui segue una sparizione tout court dal mercato del lavoro regolare: una modalità di utilizzo di forza-lavoro che viene ormai comunemente chiamata “usa e getta”. Per molti è probabile che la destinazione finale sia l’economia sommersa, per altri uno stato di disoccupazione permanente che si trasforma presto in condizione di inattività da scoraggiamento. I numeri sono drammatici. Su 100 entrati per la prima volta nel lavoro regolare alla fine degli anni Ottanta in età 19-30, meno di 80 sono ancora al lavoro venti anni dopo: i restanti 20 sono letteralmente scomparsi nel corso del tempo. Un turnover così elevato ha conseguenze assai negative sulla crescita e sull’innovazione tecnologica. Al di là della ridotta capacità di consumo delle famiglie, già grave problema di per sé, ne risente sia l’accumulazione di capitale umano che l’innovazione tecnologica perché viene meno l’incentivo a investire in formazione da parte delle imprese e dei lavoratori stessi. I dati OECD indicano che la produttività del lavoro (misurata dalla differenza tra il tasso di crescita del PIL e quello dell’occupazione) è notevolmente cresciuta nel periodo 2000-2008 in molti paesi europei. Invece in Italia (e in Spagna) la produttività del lavoro va riducendosi dal 2001, e così anche la MFP (multi-factor productivity), conseguenze probabili dell’enorme abuso di contratti variamente atipici, a bassi salari e alta flessibilità e della stagnazione degli investimenti che ne consegue.
Molti autorevoli economisti riconoscono che le politiche per l’occupazione dei giovani dell’ultimo ventennio hanno avuto un successo assai modesto. Il capo-economista della Banca Mondiale, O. Blanchard, si è recentemente chiesto coraggiosamente: “ne sappiamo abbastanza per dare consigli ?”. Forse sì, forse no. Ma sicuramente abbiamo a che fare con tendenze persistenti e strutturali, difficilissime da modificare senza drastiche riforme del sistema fiscale e dello Stato sociale. Non riforme “al margine”, come quasi tutte quelle che sono state introdotte in Italia negli ultimi vent’anni. Ma le riforme strutturali richiedono una classe politica forte e un elettorato disposto a sostenerle energicamente. C’è da sperare che la sobrietà e la serietà di intenti del Governo Monti aiuti il paese a reagire all’apatia e all’antipolitica diffusa negli anni del berlusconismo, e riesca nell’intento di mettere in moto un ciclo virtuoso di riforme strutturali in grado di incidere sull’assetto del mercato del lavoro. I cui risultati più importanti potranno vedersi solo nel medio-lungo periodo.
Il disegno di legge Nerozzi (che recepisce molte idee della proposta Boeri-Garbaldi di qualche anno fa) sembra una buona piattaforma di avvio per il negoziato sul mercato del lavoro che si sta aprendo in questi giorni. Il Contratto Unico di Ingresso (CUI), o “contratto prevalente a tutele crescenti”, prevede un percorso di ingresso di durata non superiore ai tre anni, durante il quale il lavoratore acquisisce garanzie crescenti qualora si verifichino interruzioni del rapporto di lavoro. Al termine dei tre anni il contratto si trasforma automaticamente in contratto a tempo indeterminato, sottoposto a tutela reale come prevista dalla normativa vigente. Il CUI è pensato come strumento per garantire tutele minime ai lavoratori non protetti dalla contrattazione e non proibisce forme contrattuali diverse, ma “mira a un loro forte ridimensionamento scoraggiandone l’abuso”. Dovrebbe sostituire la pletora di forme contrattuali atipiche a oggi vigenti, e portare a un allineamento dei contributi previdenziali tra tutti quelli che rimarranno in essere pro tempore. Il CUI è un contratto che ammette flessibilità sull’uso dello straordinario e sull’orario di lavoro con modalità negoziate tra le parti. Il disegno di legge Nerozzi riconosce che la contrattazione aziendale decentrata è più funzionale a un utilizzo razionale di forza-lavoro: in nessun modo, tuttavia essa può contravvenire alle procedure costituzionalmente previste, come invece è il caso per l’art. 8 della legge 148/2011 che, introducendo il “contratto di prossimità”, produce effetti vincolanti erga omnes.
In caso di licenziamento prima della decorrenza del terzo anno, il lavoratore assunto con CUI maturerebbe un indennizzo a carico dell’impresa pari a cinque giorni di salario ogni mese lavorato. Dopo un anno, l’indennizzo è pari a due mesi di salario; dopo due anni a quattro mesi.
Mi pare relativamente infondato, il timore di Tiraboschi che vede nel CUI un depotenziamento dell’aspetto formativo che caratterizza il nuovo contratto di apprendistato (accordo firmato in estate 2011). Una volta riportata la fascia di età dell’apprendistato entro limiti più ragionevoli (oggi l’applicabilità del contratto si estende fino a 29 anni) – il CUI e il contratto di apprendistato potrebbero convivere, posto che il target dell’apprendistato è pensato come molto più professionalizzante di qualsiasi altra forma contrattuale, e che, per questo motivo, richiede un monitoraggio specifico e relativamente costoso della fase formativa, pena la inadempienza degli obblighi formativi del datore di lavoro così come, in molti casi, avveniva per i CFL.[1]
La proposta Nerozzi recepisce il principio che i lavoratori a tempo indeterminato guadagnino meno di coloro che vengono assunti a progetto e/o a tempo determinato, qualunque sia la tipologia di contratto atipico che viene utilizzato. I lavoratori assunti con tali contratti devono essere compensati per il maggiore rischio di restare senza lavoro, e il relativo costo deve essere a carico dell’impresa. I datori di lavoro che volessero assumere con contratti a progetto o a tempo determinato dovrebbero quindi pagare i lavoratori al di sopra di una soglia da determinare, ad esempio di 25 mila eu/ anno, o anche più elevata se è particolarmente elevato il rischio di perdere il lavoro.[2]
La strada degli incentivi e sgravi contributivi che vigeva con i contratti formazione-lavoro al fine di favorire l’ingresso dei giovani, e che era stata autorevolmente appoggiata dalle istituzioni comunitarie, ampiamente utilizzata sia in Italia che in altri paesi membri, andava esattamente nel senso opposto, rendendo conveniente l’utilizzo sistematico dei giovani con contratti a tempo determinato che potevano ripetersi nel tempo.
Il governo deve affrontare contestualmente una riforma degli ammortizzatori sociali in grado di tutelare la generalità dei lavoratori, e in particolare i precari. Il sussidio di disoccupazione è ancora oggi modestissimo e disponibile solo per un’esigua minoranza di lavoratori con contratto standard; la CIG ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale in tutti questi anni di pesanti ristrutturazioni industriali, ma, anche questa, si rivolge a una platea molto parziale di lavoratori. Il progetto di riforma dovrà salvaguardare le centinaia di migliaia di persone in mobilità che, alla scadenza, non avranno i requisiti per andare in pensione. Dovrà anche tenere in conto l’esistenza di un “esercito di riserva” di oltre tre milioni di “inattivi ma disposti a lavorare” – lavoratori “scoraggiati” a tutti gli effetti – che non ha eguali in nessun paese europeo (in Francia gli inattivi disposti a lavorare sono un decimo di quelli italiani; perfino in Spagna sono meno di un terzo). La differenza tra l’Italia e tali paesi sta proprio nel fatto che altrove esistono sussidi di disoccupazione generalizzati che agiscono da disincentivo al dichiararsi inattivo. In Italia tale disincentivo non esiste. Una larga parte dei tre milioni di persone in condizione di inattività, ma disposti a lavorare, lo sono da 8-10 anni. Il loro numero è cresciuto di quasi 200 mila unità all’anno dal 2004 a oggi, e continuerà a crescere nei prossimi anni, stante le condizioni dell’economia. Non vi è dubbio che almeno la metà degli inattivi disposti a lavorare siano da considerare disoccupati a tutti gli effetti, e che molti altri lavorino nel sommerso: anche escludendo dal computo gli irregolari del sommerso, il tasso reale di disoccupazione italiana verrebbe a collocarsi vicino al 15%, lontanissimo dal 9% circa che viene sbandierato nelle statistiche ufficiali. Nel momento in cui fosse introdotto un sussidio di disoccupazione generalizzato, molti degli attuali inattivi si presenterebbero con i requisiti in regola per ottenerlo. Nel fare i conti di quanto costerà la riforma e dove trovare le risorse per finanziarla, sarà necessario avere bene in mente questo scenario.
[1] Non è da trascurare la proposta di Boeri e Garibaldi sull’opportunità che Università e imprese creino dei corsi di laurea triennale da svolgere sia in aula che in posti di lavoro monitorati all’interno delle imprese stesse. Qualche forma di sperimentazione non dovrebbe essere difficile da realizzare – il Politecnico di Torino ne ha già in corso – e fornirebbe elementi per migliorarla in itinere.
[2] Ci si dovrà chiedere in fase di approntamento degli strumenti adeguati – qualora si ispirino al disegno di legge Nerozzi – se siano prevedibili “facili” forme di elusione degli obblighi e/o comportamente opportunistici e/o decisamente truffaldini specialmente (ma non solo) sui contratti atipici che resterebbero comunque in essere. È noto che, specialmente in alcuni settori e in alcune regioni, sono frequenti i casi di buste-paga mensili di 1.500 euro, cui corrisponde una corresponsione effettiva di soli 1000 euro. La minaccia di licenziamento se il lavoratore non accetta sarebbe forte specialmente se l’assunzione fosse avvenuta con contratto atipico che prevede cessazione del rapporto senza costi per il datore. Al lavoratore potrebbe facilmente essere rinfacciato che il suo salario è comunque più alto di quello che otterrebbe sotto un CUI, e che i contributi previdenziali sono versati sulla base della busta-paga ufficiale. Non è affatto impossibile che comportamenti altrettanto truffaldini possano aversi anche con i CUI: l’incentivo sarà però minore perché un licenziamento nel corso dei tre anni sarebbe più costoso per il datore e il salario del lavoratore è comunque inferiore a quello che verrebbe corrisposto con contratto atipico per una prestazione analoga.
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