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Europa, occupiamo lo spazio comune
Non c'è timoniere, né punto d'arrivo nell'attuale "rotta" d'Europa, cresciuta con il motto implicito "meglio che niente". L'alternativa è radicale: uscire dall'egemonia privatistica, mettere al centro della scena la lotta per un diritto del comune e contro l’accumulo istituzionalizzato della ricchezza
Tenere una rotta è possibile qualora si configurino due condizioni. Deve esserci un timoniere e il timoniere deve tener presente un punto d’arrivo cui tendere in modo il più possibile coerente. Ne segue che la metafora della rotta mal si addice all’Europa per mancanza dell’una e dell’altra condizione. Non si può escludere che nell’immediato secondo dopoguerra i c.d. padri fondatori dell’Europa, da Shuman a Spinelli da Monet ad Adenauer, avessero in mente un obiettivo, sostanzialmente quello di evitare rigurgiti di aggressività militare tedesca attraverso misure di mercato. Quello scopo, certo importantissimo, è stato raggiunto ma la sconfitta politica del manifesto di Ventotene (almeno nella sua interpretazione più ambiziosa e avanzata) ha semplicemente tramutato la cifra dell’aggressività tedesca da militare a economica, come ampiamente dimostrato inter alia dalla recente vicenda greca. Conseguenza politica del prestigio dei “padri fondatori” è stata l’ideologia, diffusasi soprattutto a sinistra, del “meglio che niente”.
In tempi recenti Delors e Prodi sono stati gli esponenti più prestigiosi della nutrita schiera di quanti sostengono la desiderabilità intrinseca del lavoro politico rivolto all’obiettivo della maggior integrazione. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Maastricht, dall’elezione diretta del Parlamento europeo all’euro, ci si è proclamati spesso con orgoglio “europeisti” senza mai davvero fare i conti con il problema di “quale integrazione”. Ben pochi si sono chiesti, con la necessaria autorevolezza, dove la politica del “meglio che niente”, trasposta in un dispositivo giuridico istituzionale complesso e inarrestabile, diacronico e sincronico, quale quello della Comunità, dell’Unione e del Consiglio d’Europa, stesse portando i popoli europei.
Ben pochi si sono chiesti il significato sul piano della sovranità, non solo degli Stati membri ma degli stessi popoli europei, di un processo di integrazione ormai messo in moto e zelantemente perseguito dalle Corti europee, dalla cultura giuridica e dall’insegnamento accademico (processo di Bologna), senza che esistesse alcun modo di trasmettere in modo significativa una volontà popolare difforme. In effetti, non soltanto il Parlamento europeo è un triste simulacro della rappresentanza (non ha alcun potere reale) ma l’espressione della volontà popolare (utilizzando ancora il linguaggio sempre più fatuo della democrazia formale) si svolge all’interno degli Stati membri su temi quasi esclusivamente nazionali. In più non si è immaginato alcun meccanismo volto all’allineamento temporale delle elezioni politiche degli Stati che compongono l’Unione, il solo accorgimento che avrebbe, almeno in teoria, potuto indicare la “rotta politica” all’Europa. Infatti, ripercorrendo la storia europea dal Trattato di Roma a oggi, si nota che in nessun momento partiti dello stesso colore politico sono stati nel pieno delle forze in un numero sufficientemente alto di paesi. I leader europei si trovano sempre impegnati in momenti differenti del loro mandato politico, cosa che produce condizioni incompatibili con quel dibattito approfondito a livello continentale che, almeno a periodi, i partiti politici avrebbero potuto produrre qualora impegnati sulle medesime scadenze elettorali.
L’istituzionalizzazione dell’impossibilità politica di tracciare una rotta, prodotta dalla retorica europeista del “meglio che niente” si trova alle scaturigini di tutti i problemi lamentati da Rossana Rossanda aprendo questo dibattito. In effetti è emerso un cocktail micidiale fra tecnocrazia, burocrazia, privatizzazione di ogni potere decisionale in capo ai c.d. poteri forti globali, velleitarismo, e realismo cinico che caratterizzano la “non rotta” europea di questi anni. Benvenuto è perciò il momento di interrogarsi, anche nell’ambito di una sinistra radicale che rivendichi con forza la capacità di governare, se nelle attuali condizioni quella “maggior integrazione politica” che in tanti reclamano autorevolmente (da ultimo Amato nell’intervista con la stessa Rossanda sul manifesto) non sia che la traduzione attuale della solita politica del “meglio che niente”. Tale politica, come ben sappiamo, ha finito per tradursi nella autentica scomparsa della sovranità dei popoli europei a favore dei c.d. mercati (ossia dell’oligopolio internazionale dei super-ricchi che spadroneggiano sul mondo). Non è troppo presto per asserire che gli esiti politici del processo di integrazione europea sono stati all’insegna del progressivo trasferimento del potere in luoghi sempre più lontani dal popolo, con conseguente espropriazione della democrazia partecipativa. Non è troppo presto per dire che l’Europa ha dato e sta dando un contributo politico e ideologico molto forte nella trasformazione dei cittadini in consumatori (c’è una potente Direzione generale dei consumatori che generosamente unge quei diabolici meccanismi di pacificazione sociale che sono le politiche per i consumatori) cui consegue passività, consumismo, isolamento e partecipazione nella retorica dominante. Non è troppo presto per dire che i dispositivi della rappresentanza politica, che si sono venuti creando negli stati membri alla conclusione della guerra fredda, hanno prodotto un ceto politico europeo che è il principale responsabile del progressivo e implacabile processo di trasferimento delle risorse “dai tanti ai pochi”, fino al punto che la forbice fra i ricchi (pochi) e gli altri (ossia i poveri attuali o potenziali) ha raggiunto portata tale da impedire qualsiasi straccio di coesione sociale.
In queste condizioni in cui non è presente alcuna rotta e in cui anzi l’Europa si fa trasportare e allo stesso tempo trasporta il sistema mondo verso la catastrofe ecologica e umanitaria finale, proporre “più integrazione politica” senza nulla dire su quale direzione si intenda prendere costituisce l’ennesima ipocrisia e mancanza di coraggio tanto diffusa anche a sinistra. La verità è che oggi l’egemonia privatistica e individualizzatrice, prodotta dagli effetti del “meglio che niente” non appena le condizioni al contorno sono mutate a fine Guerra fredda, ha distrutto il welfare, ha aumentato le disparità sociali, l’arroganza culturale e l’imperialismo politico, respingendo la responsabilità storica dell’attuale più grande “mercato saccheggiatorio” del mondo (l’attuale assalto alla Libia è da questo punto di vista particolarmente significativo) .
Una rotta va oggi trovata non solo per l’urgenza imposta dall’esser l’Europa politica tutta “nave senza nocchiero in gran tempesta” (e chi ha memoria ricorda il seguito della terzina del poeta). Più in profondità (e con i tempi necessari che non è prudente farsi imporre dalla shock economy) bisogna chiedersi se l’Europa sia soltanto un problema o un ostacolo nel trovare una rotta rotta globale capace di portare in salvo l’umanità o se possa divenire parte della soluzione. E qui il problema si fa complesso, perché il diritto e le istituzioni europee cristallizzano un ordine fortemente garantista del suddetto modello di capitalismo privatistico, individualizzante e strutturalmente volto al trasferimento progressivo di risorse dai tanti ai pochi, in una sorta di “accumulazione continuativa” che le trasformazioni cognitive del capitalismo non fanno che accentuare e rendere ancora più visibile.
L’Europa prodotta dal dominio del positivismo scientifico e del pensiero liberale, ancor oggi egemonico perfino in una certa sedicente sinistra, ha strutturato un ordine fondato sulla tutela della proprietà privata come diritto fondamentale tanto delle persone fisiche quanto (ben più grave) di quelle giuridiche all’accumulo illimitato di risorse. Questo modello, sostenuto da apparati repressivi che crescono in violenza e brutalità in modo direttamente proporzionale alla disparità sociale, irreggimenta ogni scambio sociale (e quindi l’intera produzione e distribuzione della ricchezza) nella forma, falsamente neutrale, del contratto e dello scambio di mercato (che sono evidenti luoghi in cui vince sempre il più forte). Ciò comporta un processo forse già oggi irreversibile (in modo costituzionalmente rituale) di privatizzazione dei beni e degli spazi comuni non soltanto di natura fisica (ambiente, territorio, acqua) ma anche relazionale (cultura, lavoro, servizi sociali, sanità, welfare) costituzionalizzato in ogni Stato membro (anzi condizionante la stessa partecipazione all’Europa).
È questa la struttura profonda che travolge la stessa sovranità pubblica e rappresentanza politica (a sua volta privatizzata) sottoposta al potere sempre più immenso della corporation (persona giuridica) che, essendo immortale, può esercitare il suo diritto proprietario all’accumulo in modo infinito, crescendo (qualora vincitrice della lotta sempre più violenta con le altre) in dimensione ricchezza e potere senza alcun limite. Questi pochi “padroni artificiali” diventano così necessariamente più potenti, economicamente e politicamente, dell’aggregato sociale delle persone fisiche che avevamo imparato a indicare come popolo sovrano e che invece è ridotto a una posizione di servile impotenza riflessa dalle scelte dei propri rappresentanti e di tecnocrati sempre più apparentemente potenti.
Senza rompere questo meccanismo giuridico e costituzionale non ha senso neppure parlare di una rotta. Infatti, la struttura della persona giuridica corporation istituzionalizza la decisione razionale di brevissimo periodo (in particolare massimizzazione del valore delle azioni) che in quanto tale non può che essere speculativa. A ben vedere non ha neppure senso parlare di speculazione come se si trattasse del comportamento malvagio di qualche soggetto. Piuttosto, non siamo di fronte a nulla di “eccezionale” ma piuttosto affrontiamo (e la crisi rende ciò del tutto evidente) le conseguenze strutturali della privatizzazione della sovranità. In questo quadro chi opera nei consigli di amministrazione delle corporation non può che comportarsi come se le proprie decisioni non avessero conseguenze sociali ma dovessero esser valutati soltanto dal punto di vista della massimizzazione razionale del valore della corporation medesima in lotta con le altre.
In altri termini, la corporation istituzionalizza la tragedia dei beni comuni, e chi ha spirito critico nota chiaramente, al di là della cortina fumogena prodotta dai lavori di Ostrom e dal suo premio Nobel, che il mondo è un gigantesco comune (con risorse finite) e che il Wto, colpendo la possibilità degli stati di controllare almeno in parte i flussi di capitale, ha reso davvero difficile evitare la tragedia. L’impotenza del diritto globale dà ragione a Garret Hardin quando ci dice che il comune è “luogo di non diritto” e la corporation in questo comune pascola molto oltre il limite della sostenibilità.
Quasi superfluo è dire che, tali potentissimi padroni fanno della “crescita infinita”, che è la loro apparente condizione strutturale, l’ideologia dominante, proprio come le gramsciane ghiande, pur finendo in stragrande maggioranza nel ventre dei suini, se avessero un’ideologia, si promuoverebbero a querce in potenza. Sembra quindi evidente che quanto manca oggi per tracciare una rotta sia una ideologia, capace di sostituire, l’“ideologia della morte dell’ideologia” diffusasi come portato del meglio che niente dopo la caduta del muro di Berlino. Forse oggi la crescita della sensibilità per i beni comuni (commons), che in Italia forse più che altrove sta dando risultati politici, può offrire le prime basi di un’ideologia nuova che, lungi dal negare teoricamente la tragedia dei comuni attraverso esempi bucolici, se ne faccia carico mirando all’elaborazione politica di strumenti adeguati. L’ideologia nuova deve motivare politicamente alla lotta contro le le cause della tragedia e i suoi protagonisti, che come cellule cancerogene, crescono all’eccesso finendo per uccidere se stessi insieme al corpo vivo che li mantiene.
La lotta per un diritto del comune e contro l’accumulo istituzionalizzato della ricchezza deve tornare al centro della scena in Europa, smascherando gli apparati ideologici della vecchia egemonia. Non diritti dei consumatori ma centralità della persona; rifiuto della proprietà privata come diritto fondamentale; basta alla retorica della “lotta alla povertà” che la disconnette rispetto alla necessaria “lotta alla ricchezza”; ripensamento della personalità giuridica e della sua protezione istituzionale; elaborazione politica e giuridica di uno spazio di comune, che funga da limite invalicabile all’estensione del mercato; impegno forte per la diffusione dell’alfabetizzazione ecologica; piena consapevolezza dell’artificialità e fatuità dei confini chiusi di fronte alle dinamiche demografiche, con ridirezionamento verso l’inclusione degli investimenti militari in esclusione... Sono queste pillole di un’ideologia nuova che, tramite tipologie di lotta molto diverse e legate a ciascun contesto, deve conquistare l’egemonia fra i popoli d’Europa tracciando per la prima volta una rotta consapevole.
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