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Età alla pensione e responsabilità familiari
Vincenzo Ferrante, Alessandro Rosina
Le donne italiane sono tra le più longeve al mondo: poco meno di 85 anni di età media, con un vantaggio di quasi sette anni sugli uomini (che si fermano a circa 78). A fronte di tale situazione, è davvero poco sostenibile in termini di principio la normativa previdenziale che continua a mantenere in molti casi un limite di età differenziato, prevedendo per le donne un più precoce e prolungato pensionamento.
Una disparità che viene usualmente giustificata come una sorta di "risarcimento" per la maggior assunzione femminile di responsabilità familiari. Ma compensare il carico domestico e di cura con un ritiro anticipato dal lavoro remunerato legittima di fatto gli squilibri e le iniquità di genere. Inoltre, si considera implicitamente che tutte le donne abbiano responsabilità familiari e tutti gli uomini vi si sottraggano.
L’attuale normativa va inoltre in direzione opposta rispetto alle misure necessarie per rispondere alla sfida del processo di invecchiamento, che dovrebbero invece favorire la permanenza e la valorizzazione dei lavoratori maturi. E’ anche discriminatoria, come ha affermato la Corte di Giustizia europea, in quanto, ad esempio, finisce per penalizzare le donne nel raggiungimento delle funzioni direttive, cui si accede generalmente in età avanzata.
In questo senso, raccogliendo le indicazioni comunitarie, il Governo ha deciso di intervenire con l’obiettivo di arrivare per il 2018 all’annullamento delle differenze di età tra gli uomini e le donne che lavorano nel pubblico impiego: il tetto per le lavoratrici verrebbe infatti gradualmente innalzato a quota 65 a partire dal 2010.
Tale misura ha incontrato vari ostacoli nel passare dallo stadio di bozza ad una vera e propria proposta, sia per la difficoltà a mettere nuovamente mani al sistema pensionistico, sia perché si avvertono da più parti resistenze a procedere sulla via della unificazione. Si è anzi aperto un vivace dibattito circa la misura più idonea a consentire la riforma senza gravare di troppi sacrifici le lavoratrici.
A riguardo, infatti, non si può dimenticare di sottolineare come la vita lavorativa delle donne resti comunque più difficile e complessa di quella degli uomini per mille motivi (retribuzioni più basse, disoccupazione più elevata, specie per le donne ad alta scolarizzazione, carriere frammentate, ridottissimo accesso ai posti direttivi), di modo che non sarebbe illogico se il Parlamento, nell’innalzare l’età di accesso alla pensione, tenesse conto di tali aspetti.
La strada più virtuosa è in ogni caso quella di ridurre tutte le disparità, agendo anche, ad esempio, sugli strumenti che consentono una maggiore conciliazione tra carriera lavorativa e impegni familiari, sia per le donne che per gli uomini.
Se non fossimo un paese squilibrato, le responsabilità familiari dovrebbero essere messe in relazione più con il fatto di avere figli rispetto al non averli, che all’essere donna anziché uomo. In questo dibattito, in effetti, nessuno ha proposto di reintrodurre qualche forma di vantaggio per le persone con figli. In passato le donne con almeno un figlio accedevano con cinque anni di anticipo alla pensione nel settore pubblico e questo ha generato un enorme numero di pensioni "baby" (anche a 35 anni!), il cui onere finanziario viene ancora sopportato dall’INPDAP. Dopo anni di vacche grasse, nel 1995, al momento della grande riforma "Dini" si è però ecceduto nel senso opposto: il vantaggio attualmente riconosciuto alle donne con figli (quattro mesi di anticipo in caso di un figlio, otto in caso di due o più figli), appare infatti quasi ridicolo, soprattutto quando tutti si dichiarano a favore di una politica di sostegno alla famiglia.
Si potrebbero allora riconoscere vantaggi più robusti (per es. 18 o 24 mesi di anticipo per ogni figlio, sino ad un massimo di 60 mesi complessivi). Nel quadro della parità di trattamento, che ci è imposta dall’Europa, la promozione della maternità (e della paternità) costituisce un motivo del tutto legittimo di differenziazione nell’età alla pensione. Se si può considerare universale la potenziale necessità di cura verso un genitore anziano, non tutti però hanno responsabilità di cura ed allevamento dei figli. E’ giusto che tale responsabilità, senza la quale qualsiasi sistema sociale crollerebbe, venga riconosciuta e che si preveda possa valere in prospettiva sia per le madri che per i padri.