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Piccoli rimedi per la grande recessione
Il bilancio del vertice G20 è del tutto insoddisfacente. Si è trovato un compromesso laddove era possibile, ma le soluzioni sono di gran lunga al di sotto dei problemi
“…Nessuna delle decisioni del G20 porterà il mondo neanche un piccolo passo più vicino a risolvere la crisi economica globale…”
W. Munchau
Può darsi che W. Munchau esageri un pò. Al di là dei toni trionfalistici usati dai portavoce del meeting – Gordon Brown ha parlato addirittura, alla fine della riunione, dell’emergere di un nuovo ordine mondiale-, i risultati del vertice del G-20 del 2 aprile sono stati leggermente migliori di quanto ci si poteva aspettare da degli incontri di due mezze giornate dei grandi della terra, per un totale forse di cinque - sei ore di discussioni; ma, comunque, l’incontro ha fornito molte meno risposte di quanto il mondo avrebbe avuto bisogno.
In ogni caso, il vertice ha dedicato molta attenzione ai problemi dei paesi deboli ed emergenti ed ha promesso loro rilevanti interventi di sostegno, sulla consistenza dei quali si veda meglio più avanti.
L’incontro ha anche affrontato il tema di una più attenta azione di controllo sul sistema finanziario, promettendo interventi sul fronte dei paradisi fiscali, del segreto bancario, degli hedge fund, delle agenzie di rating, delle retribuzioni dei dirigenti bancari. Si tratta, peraltro, di decisioni di larga massima e molto generiche, di dichiarazioni di principio che dovrebbero poi avere –forse- un seguito operativo, ma che richiederanno anni di trattative defatiganti per essere eventualmente portate avanti.
Qualcuno (Beattle, 2009) ricorda come già al vertice di Gleaneagles del 2005 il gruppo degli otto aveva fatto grandi promesse, in particolare per quanto riguardava gli aiuti allo sviluppo; gli impegni sono stati poi nella sostanza disattesi- il paese che ha fatto di meno rispetto agli impegni del 2005 è stata proprio l’Italia di Berlusconi. Anche le dichiarazioni solenni fatte al G20 del novembre 2008 contro il protezionismo non hanno avuto nella sostanza grande seguito.
Si sono poi affrontati soltanto alcuni dei temi che andavano discussi nel quadro di un più attento sistema di controllo sulla finanza –manca così, ad esempio, qualsiasi riferimento concreto al tema dei derivati, a quello delle cartolarizzazioni, alla ristrutturazione delle regole di Basilea2, all’introduzione di un principio di precauzione per quanto riguarda i nuovi prodotti e processi finanziari.
Ci sia permesso di ricordare come, in particolare, tutto quanto dichiarato sui paradisi fiscali appaia almeno in parte equivoco, limitandosi ad una questione di trasparenza senza toccare, ad esempio, lo spinoso ma cruciale tema delle aliquote di tassazione; i più importanti paradisi fiscali del pianeta sono, nella sostanza, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Cina –si veda sulla questione, ad esempio, The Economist, 2009. Per quanto poi riguarda comunque gli accordi sulla trasparenza, una esperta del settore (Joly, 2009) valuta che quanto è stato ottenuto appare abbastanza limitato, dal momento che, ad esempio, in molti di tali paesi non ci sono né registri, né contabilità, né organi di controllo.
Al di là dei provvedimenti che sono stati annunciati, il vertice resterà forse negli annali più per quanto non si è detto. L’incontro non ha portato a nulla di nuovo per quanto riguarda gli stimoli all’economia reale, i possibili rimedi agli squilibri commerciali, economici, finanziari tra i vari paesi del mondo, le politiche redistributive del reddito, quelle monetarie o i possibili sforzi per ripulire i bilanci delle banche, né, infine, gli eventuali meccanismi di sorveglianza transnazionale delle attività e delle istituzioni finanziarie.
Vediamo meglio alcuni di questi problemi e diamo contemporaneamente uno sguardo più attento alle cifre relative al sostegno dei paesi più deboli.
Le banche e il sistema finanziario
In specifico, nessun atto concreto è stato deciso sui modi atti a risanare il sistema bancario dei vari paesi, su come sbarazzarsi in particolare dei titoli e dei prestiti tossici e su come ricapitalizzare gli istituti, come se ormai tutte le misure in merito fossero state già prese e ci fosse solo da attendere che le cose volgano al meglio.
Ironicamente, nel frattempo, negli Stati Uniti, il Federal Standard Accounting Board, su forti pressioni del mondo finanziario e dello stesso Congresso- che si va rivelando sempre più come pieno di persone irresponsabili-, stabiliva che le banche potevano non applicare più le regole stringenti che erano obbligate a seguire sino a ieri per quanto riguarda i criteri di valutazione dei titoli in portafoglio e che potevano fare nella sostanza, d’ora in poi, a piacimento; così, i bilanci di molti istituti potranno miracolosamente migliorare in misura molto decisa da un giorno all’altro e le perdite potranno scomparire dalla scena. Wall Street e la borsa hanno subito reagito con entusiasmo alla notizia e l’informazione che i disoccupati nell’ultimo mese sono aumentati all’incirca di altre settecentomila unità non è stata invece per niente presa in conto dai mercati. Analogo entusiasmo, per simpatia, hanno subito dopo manifestato la borsa giapponese e quelle dei paesi europei. Che importa se il provvedimento del FASB va in senso diametralmente opposto a quanto sarebbe necessario, incoraggiando proprio quel tipo di pratiche che il summit di Londra ha invece a parole condannato (Landler, Sanger, 2009)! Lo IASB, l’ente internazionale che detta le regole contabili per la gran parte degli altri paesi del mondo, non ha aderito completamente all’iniziativa del FASB, ma temiamo che lo farà presto. Le banche zombie sono, almeno per il momento, salve.
Nello stesso giorno –le buone notizie non arrivano mai da sole- si è appreso che diverse banche americane che sarebbero le destinatarie del piano Geithner di salvataggio del sistema e che dovrebbero vendere a tal fine i titoli e i prestiti tossici in loro possesso a delle joint ventures pubblico-private, stanno meditando di partecipare al programma, ma –attenzione- come acquirenti invece, o oltre che, come venditrici. Alla fine, così, questi istituti utilizzerebbero i soldi già avuti dal governo per farci sopra degli altri soldi. Il piano Geithner si rivela così, ancora una volta, come una costruzione veramente geniale.
Per quanto riguarda la regolamentazione e il controllo internazionale dei mercati, delle istituzioni, dei prodotti finanziari, è stato solo deciso un blando sistema di sorveglianza; sarà creato un Financial Stability Board, sulla base del già esistente ed inutile Financial Stability Forum, guidato con grande cautela da Mario Draghi. Tale ente, che sarà allargato ai paesi emergenti, avrà il compito di monitorare il sistema finanziario per individuare in anticipo dei segnali di rischio; inoltre si è trovato l’accordo per una qualche forma dei coordinamento della regolazione delle istituzioni finanziarie più importanti. Nessun consenso invece sul varo di un meccanismo che risolva le questioni che si aprono quando una grande banca internazionale è in stato di insolvenza.
I soldi
Nel suo discorso di chiusura del vertice, G. Brown ha dichiarato con soddisfazione che lo stimolo fiscale a livello globale era il più grande che il mondo avesse mai visto e che esso avrebbe raggiunto la cifra di 5 trilioni di dollari; egli sottolineava, inoltre, come vi si aggiungevano ora altri 1100 miliardi. Di questi, 500 dovrebbero essere quelli da assegnare al Fondo Monetario Internazionale. Tale organismo appare a prima vista il vero vincitore del vertice (Landler, Sanger, 2009), avendo ricevuto anche la delega a monitorare l’efficacia di molti dei provvedimenti decisi il 2 aprile e a controllare lo sviluppo di possibili rischi finanziari sui mercati. Non è chiaro quale dovrebbe essere su questo tema la suddivisione dei compiti con il Financial Stability Board; si accenna comunque ad una collaborazione tra i due enti. Mah! Inoltre, 250 miliardi sono stati stanziati per la creazione dei nuovi diritti speciali di prelievo, sempre attraverso il Fondo, altri 250 sono dedicati al finanziamento del commercio internazionale e 100 miliardi, infine, dovrebbero essere indirizzati ai paesi più poveri.
Ma, dal momento che si sa che il primo ministro inglese è solito gonfiare i numeri e di frequente anche contarli due volte, un giornalista del Financial Times (Giles, 2009) ha cercato di vedere cosa ci sia veramente dietro le dichiarazioni ufficiali e le conclusioni cui egli è arrivato appaiono abbastanza interessanti.
Per quanto riguarda intanto i 5 trilioni di dollari, i nuovi stanziamenti sono pari a zero. La cifra annunciata fa riferimento in effetti alla stima della crescita dei valori cumulati dei prestiti pubblici tra il 2008 e il 2010, secondo informazioni già disponibili da tempo.
Dei 500 miliardi decisi per il fondo monetario, 100 sono stati già offerti dal Giappone nel novembre del 2008, mentre alcune settimane fa l’Europa ha dichiarato la sua disponibilità per altri 100 miliardi –sarebbe interessante, a questo proposito, sapere quanto ha promesso l’Italia e dove prenderà i soldi. Da questo punto di vista, il vertice non ha quindi detto nulla di nuovo. Gli Stati Uniti dovrebbero mettere 100 miliardi –ma la decisione deve passare per il Congresso e c’è da prevedere quindi che si andrà incontro a grosse difficoltà. La Cina dovrebbe stanziarne altri 40 –ma pensiamo che si aspetterà delle contropartite –, mentre si afferma invece che la riforma delle quote dei vari paesi nel fondo e il varo di un nuovo sistema di governance e di gestione del Fmi saranno decisi solo nel 2011: non c’è nessuna fretta. Comunque mancano ancora per quadrare i conti 160 miliardi.
Per quanto riguarda i diritti speciali di prelievo, dato che essi vengono assegnati sulla base delle quote che ogni paese detiene nel fondo, la gran parte di essi andrà ai paesi ricchi e soltanto 80 miliardi, meno di un terzo del totale, invece ai paesi a medio reddito e a quelli più poveri.
In relazione poi alle risorse necessarie per finanziare il commercio internazionale, i 250 miliardi citati da Brown sono solo quanto viene stimato essere necessario alla bisogna, ma gli stanziamenti effettivi, almeno sino a questo momento, sono pari a 3-4 miliardi in tutto. Per quanto riguarda infine i 100 miliardi decisi per l’aiuto ai paesi più poveri, si tratta di una stima forse un po’ ottimistica di quanto le agenzie finanziarie internazionali hanno già programmato di spendere in proposito. Sembra anche che ci sia, almeno in parte, una sovrapposizione tra i due fondi sopra citati e che una parte delle risorse sia quindi stata contata due volte, come è appunto solito fare il primo ministro inglese.
In totale alla fine, dei 1100 miliardi citati, i nuovi stanziamenti, messi insieme, ammontano per il momento a meno di 100, come commenta Giles.
E gli squilibri?
Il vertice non ha poi affrontato in alcun modo la questione più importante di tutte e relativa a come risolvere il problema degli squilibri commerciali, economici, finanziari, mondiali, che sono poi all’origine della crisi. Questo è un tema su cui insistono da tempo diversi autori ed in particolare sulla questione è intervenuto più volte con forza M. Wolf (Wolf, 2009). Si veda in proposito anche il recente testo di Travaglini pubblicato su questo stesso sito.
Il meccanismo internazionale della crisi poggia, alla base, sull’esistenza da una parte di paesi “dissipatori”, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Spagna, che hanno sviluppato nel tempo consumi eccessivi, con il risultato, tra l’altro, di grandi deficit della bilancia commerciale e di tassi di risparmio prossimi allo zero; dall’altra, invece, di paesi apparentemente “virtuosi”, quali, in particolare, la Cina, la Germania, il Giappone, che presentano massicci e speculari surplus commerciali e finanziari. Ad aggravare la questione sta oggi la sostanziale volontà di ambedue i gruppi di paesi di cercare di tornare grosso modo alla situazione precedente. Cina e Germania in particolare, come indicano i loro atti e le loro parole, pensano di poter ricominciare ad esportare massicciamente, mentre molte mosse dei governanti statunitensi sembrano puntare a ripristinare i meccanismi di consumo privato e di indebitamento che prevalevano prima della crisi.
La soluzione starebbe in astratto nell’ aumentare fortemente i consumi interni nel secondo gruppo di paesi, come auspica Wolf. Ma un problema sta nel fatto che almeno Germania e Giappone sembrano poco in grado di percorrere tale strada, mentre la Cina ci sta provando, ma apparentemente senza grande entusiasmo e con calma. Nel frattempo, le bilance commerciali di Cina e Germania continuano a registrare dei surplus, ma in misura ridotta rispetto a prima, con una caduta delle importazioni che è ancora maggiore di quella delle esportazioni. Dall’altro lato, Stati Uniti e Gran Bretagna dovrebbero invece frenare i livelli di indebitamento delle famiglie e delle imprese e frenare i consumi, il contrario di quanto i governi stanno cercando di fare. Mentre i deficit commerciali con l’estero dei questo gruppo di paesi si vanno comunque ridimensionando, si manifesta invece un deterioramento nei deficit dei bilanci pubblici in ambedue le categorie dei paesi, ma soprattutto in quelli della prima categoria. L’aumento della spesa pubblica è teso appunto a supplire alla carenza di domanda privata in un caso, alle mancate esportazioni nell’altro caso. Ma si tratta di una strada che potrebbe portare alla bancarotta almeno Stati Uniti e Gran Bretagna, dal momento che gli sbilanci nei loro conti pubblici, stante l’attuale situazione, potrebbero continuare anche molto a lungo, come suggerisce Wolf. Così, non si vede all’orizzonte una strada per una uscita durevole dalla crisi.
Conclusioni
Alla riunione del G20 le numerose divergenze – sul controllo internazionale del sistema finanziario, sugli stimoli fiscali, sugli squilibri mondiali, ecc.-, esistenti tra i vari paesi sono state accantonate e si è concentrata l’attenzione sulle poche cose sulle quali era possibile perlomeno un compromesso. Arrivederci quindi al prossimo meeting di settembre: chissà in quali condizioni ci arriveremo. Qualcuno vuole ancora sperare che i risultati saranno un po’ più consistenti di quelli ottenuti a Londra. Del prossimo G8 della Maddalena, invece, è meglio non fare alcun cenno.
Testi citati nell’articolo
- Beattle A., G20 aid pledges must amount to more than hot air, The Financial Times, 6 aprile 2009
- Giles C., Large numbers serve to hide big divisions, The Financial Times, 3 aprile 2009
- Joly E., L’hypocrisie est encore totale, Le Nouvel Observateur, 2-8 aprile 2009
- Landler M., Sanger D. E., Leaders reach $1 trillion deal, The International Herald Tribune, 3 aprile 2009
- Munchau W., The London summit has not fixed the crisis, www.ft.com, 5 aprile 2009
- The Economist, The G20 and tax, 28 marzo 2009
- Wolf M., Why G20 leaders will fail to deal with the big challenge, The Financial Times, 31 marzo 2009
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