Home / Newsletter / Newsletter n. 111 - 19 marzo 2011 / Banche e rischi, lavori infiniti in corso

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Newsletter

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Banche e rischi, lavori infiniti in corso

15/03/2011

Qual è il giusto livello di capitale per le banche? Mentre si disputa attorno a Basilea III, ancora nulla è stato fatto dopo la grande crisi per evitarne un'altra

“…Il problema delle banche sollevato dalla crisi finanziaria non ha ancora trovato risposta…”

Lex, 2011, a

Gli argomenti delle banche

Alle banche sembra ormai di stare tornando ai bei tempi di prima della crisi. Ogni tanto, delle voci isolate si levano ancora per ricordarci che i conti non tornano, come ad esempio ha fatto di recente Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, che ha sottolineato in un’intervista come le grandi istituzioni finanziarie continuino a sfruttare i loro clienti ingenui per pagarsi dei grandi bonus e come, in generale, i loro comportamenti potrebbero innescare presto una nuova crisi (Clark, 2011). Ma le loro parole non sembrano avere grandi effetti.

Nel frattempo, gli affari e i profitti del settore salgono di nuovo, mentre i peraltro svogliati tentativi di regolamentare il business non sono andati sino a questo momento molto avanti almeno come sarebbe necessario.

All’incontro di Davos di qualche tempo fa i rappresentanti del mondo finanziario, in particolare quelli statunitensi, si sono presentati giocando d’attacco. I loro argomenti, rivolti ai politici, sono stati nella sostanza: 1) se cercate di regolarci seriamente ci trasferiamo in altri paesi; 2) un rafforzamento delle regole contribuirebbe a rallentare la crescita economica; 3) la priorità dei governi dovrebbe essere di smetterla di parlare di banche e di crisi e rivolgere invece la loro attenzione al compito di mettere sotto controllo i bilanci statali.

La minaccia dei grandi istituti di lasciare il paese appare del tutto implausibile. Le grandi banche, e quelle statunitensi in particolare, hanno bisogno di un governo con un bilancio pubblico di grandissime dimensioni per sostenerle o esse non sarebbero in grado di farsi prestare sul mercato tutti i soldi che desiderano, né di essere salvate al momento opportuno (Johnson, 2011). Banche come la Barclays o la JPMorgan non possono andare a San Marino o alle Bahamas; quelle di New York possono al massimo andare a Londra e viceversa, ma sia le autorità monetarie di New York che quelle londinesi si stanno muovendo più o meno con la stessa linea nei confronti in particolare delle grandi banche (Johnson, 2011), quella cioè di un intervento moderato, ma che nondimeno non piace per niente ai banchieri.

Rispetto al secondo punto, il professor Miles (Miles, 2011) tra gli altri, rispetto agli allarmismi suscitati dai rappresentanti del mondo bancario che affermano come, introducendo le nuove regole di Basilea III (si veda meglio in proposito più avanti), il pil dei vari paesi interessati si ridurrebbe di una percentuale molto consistente su base annua, arriva a stimare invece che tale perdita si potrebbe assestare intorno allo 0,15% annuo, mentre bisognerebbe prendere d’altra parte in considerazione i grandi benefici portati dalla stessa proposta, quale ad esempio la riduzione nella probabilità di un rischio bancario sistemico.

Infine, per quanto riguarda il terzo punto, appare evidente che nella maggior parte dei paesi ricchi i deficit e l’indebitamento pubblici sono fortemente cresciuti proprio in relazione alla necessità di intervenire per salvare le stesse banche e per cercare di governare gli effetti di una crisi cui il comportamento del sistema finanziario ha dato un grosso contributo.

Da dove venga una parte consistente della crisi fiscale degli stati è mostrato dalla recente notizia che in Gran Bretagna si è scoperto che la Barclays, che nel 2009 ha ottenuto ben 11,6 miliardi di sterline di profitti, ha pagato soltanto l’1% di tale importo – circa 113 milioni di sterline – in imposte, attraverso pratiche del tutto ammesse dalla legge e che peraltro la banca ha cercato in tutti i modi di impedire alla stampa di divulgare i dettagli di tale notizia.

Il livello di capitale

Dopo ormai anni di analisi e di dibattiti, appare ormai da tempo abbastanza chiaro che per risanare il sistema finanziario e bancario bisogna intervenire contemporaneamente su moltissimi fronti, come abbiamo cercato di mostrare relativamente di recente (Comito, 2010, a).

Ma attualmente il dibattito appare concentrato soltanto su di un paio di punti, tra loro peraltro almeno in parte correlati, quello relativi ai mezzi propri delle banche e quello del governo dei grandi istituti e su questi due temi porremo l’attenzione.

Già in un articolo pubblicato su questo stesso sito (Comito, 2010, b) sottolineavamo come le regole relative all’adeguamento del capitale delle banche, note come Basilea III, che pure andavano nel senso giusto quando esse richiedevano un aumento abbastanza importante dei suoi livelli, fossero peraltro largamente al di sotto delle necessità, senza trascurare il fatto che le nuove regole delineate entreranno in pieno regime soltanto nel 2019.

Il testo ricordava, tra l’altro, come nel 1980 per le banche il rapporto tra mezzi propri e totale attività si aggirava negli Stati uniti intorno al 24% e in Gran Bretagna intorno al 16%; tale rapporto era poi sceso invece nel primo paese a circa l’8% intorno alla metà degli anni novanta e a circa il 3-4% in Gran Bretagna nel 2005.

Ora, come è noto, le nuove regole richiedono alle banche, entro la fine del decennio in corso, di arrivare a detenere un livello di capitale proprio che va dal 7% al 9,5% delle loro attività ponderate per il rischio e anche di più nel caso degli istituti più grandi.

Ma, rispetto a queste indicazioni, negli ultimi mesi nuove e autorevoli ricerche rilanciano la necessità di andare ben oltre.

Dei calcoli svolti recentemente da D. Miles, membro del comitato per la politica monetaria della Banca d’Inghilterra e da due suoi colleghi (Miles ed altri, 2011), risulta che i livelli di capitale proprio che in realtà servirebbero per ridurre sostanzialmente i pericoli di crisi bancarie, dovrebbero collocarsi in media tra il 16% e il 20% delle attività totali degli stessi istituti.

I livelli di capitale individuati da Miles risulterebbero in teoria pari circa al doppio di quelli previsti da Basilea III, ma un po’ di meno, peraltro, se si considerano le regole laterali fissate sempre da Basilea per quanto riguarda una nuova e più restrittiva definizione di capitali propri, nonché le previsioni più impegnative richieste per le banche più grandi e la considerazione di cuscinetti ulteriori di tipo anticiclico.

Incidentalmente, gli autori della ricerca ricordano come in Svizzera già oggi le regole previste per il capitale proprio delle banche siano sostanzialmente simili a quelle da loro proposte.

Appare interessante sottolineare un commento del Financial Times (Lex, 2011, b). L’autore sottolinea come il mondo finanziario e anche i politici respingano i suggerimenti di Miles, che certamente non passeranno, almeno per il momento. Ma dopo la prossima crisi, che appare inevitabile, afferma l’editorialista, proposte come quelle sopra indicate sembreranno molto più realistiche.

I mezzi propri delle banche sono veramente costosi?

Su di un altro piano, dopo osservazioni sostanzialmente dello stesso tenore fatte di recente da Marvyn King, Miles e gli altri sottolineano, nello stesso scritto sopra citato, che, con le loro proposte, i costi di finanziamento per i singoli istituti aumenterebbero soltanto di una percentuale compresa tra lo 0,1% e lo 0,4% annuo.

Del resto un’altra ricerca, in questo caso svolta presso l’università di Stanford (Admati e altri, 2010), mostra, con ricchezza di argomentazioni, come più in generale i mezzi propri delle banche non siano poi così costosi, smontando una delle argomentazioni contrarie portate avanti dai rappresentanti degli istituti – come in particolare, tra le più note, quelle avanzate nel giugno del 2010 dall’Institute for International Finance, un’istituzione controllata dalle stesse banche. L’istituto affermava che le nuove regole avrebbero ridotto il pil dei paesi sviluppati, entro il 2015, di ben tre punti e che esse avrebbero prodotto circa 9 milioni di disoccupati.

Gli argomenti di parte bancaria, affermano gli autori della ricerca, sono fallaci, irrilevanti o molto deboli. Non abbiamo lo spazio in questa sede per elencare in maniera adeguata le argomentazioni degli studiosi e rimandiamo al testo della ricerca per un’analisi dettagliata. Molto sinteticamente, tra l’altro, gli autori dello studio ricordano, ad esempio, che il costo del capitale utilizzato da un’impresa contiene al suo interno un premio per il rischio che deve diminuire se le banche aumentano i loro mezzi propri e riducono il livello dei debiti. Inoltre, l’ipotesi suggerita ad esempio dalla teoria dell’agenzia secondo la quale un alto livello di indebitamento ha una importante funzione di disciplina nei confronti dei manager delle imprese, manca per Admati e per gli altri di evidenze empiriche.

Stabilire regole di capitale significativamente più elevate di quelle proposte, affermano gli studiosi, comporterebbe grandi benefici sociali e costi sociali minimi o nulli.

La situazione italiana

Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha sollecitato le banche italiane ad accrescere il livello dei mezzi propri prima dell’estate 2011, quando saranno condotti degli stress test sulle banche europee o, almeno, di annunciare entro la stessa data l’intenzione di percorrere tale strada.

Quelle del nostro paese appaiono tra le banche meno capitalizzate d’Europa e gli analisti stimano che sarebbero necessari tra i 20 e i 30 miliardi di euro di fondi addizionali per mettersi in regola con Basilea III (Sanderson, 2011). Particolarmente in difficoltà si dovrebbero trovare Unicredit e IntesaSanpaolo, che dovrebbero essere soggette alla richiesta di livelli di mezzi propri più elevati di quelli delle banche normali dato il loro inserimento nell’elenco dei grandi istituti soggetti a rischio sistemico. Se si dovesse poi pensare all’allineamento con le proposte del professor Miles, i livelli di capitale necessari aumenterebbero evidentemente di molto per tutti.

In ogni caso, gli istituti interessati sembrano molto riluttanti a seguire i suggerimenti del governatore. Molti tra di essi sono sostanzialmente governati da delle fondazioni che appaiono soprattutto preoccupate di ricevere dei dividendi annui elevati e comunque desiderose di non vedere le loro quote azionarie nei vari istituti diluirsi. Vedremo nei prossimi mesi come sarà risolto il problema.

I rischi delle grandi banche diversificate

Una disputa laterale a tutto quanto sinora visto riguarda le grandi banche: di fronte alla previsione, contenuta nelle regole di Basilea III, che esse dovrebbero avere un livello di capitale più alto di quello della media, gli stessi grandi istituti affermano che questo non sarebbe necessario dal momento che il livello dei loro rischi, secondo quanto afferma correntemente anche la teoria finanziaria, sarebbe ridotto data la loro larga diversificazione di business.

Ma bisogna, in realtà, considerare che la grande dimensione e la complessità della gestione di tali organizzazioni, nonché la contaminazione incrociata rilevabile oggi tra i vari business bancari, aumentano semmai le probabilità di crisi. In sostanza, gli errori, nel caso almeno delle banche, non si cancellano attraverso la diversificazione; essi, semmai, si moltiplicano a cascata (Haldane, May, 2011). Così, alla fine, più grande e complessa l’ impresa, più grandi i rischi.

La recente crisi ha mostrato del resto chiaramente come nessun tipo di organizzazione interna sia veramente in grado di governare delle strutture così articolate. Nei sistemi complessi la differenziazione alla fine importa più della diversificazione. La diversificazione da parte delle banche, che si sono mosse contemporaneamente e tutte verso le stesse linee di business, ha generato una carenza di differenziazione per l’intero sistema. La mancanza di differenziazione genera a sua volta una grande fragilità dello stesso sistema (Haldane, May, 2011). Del resto, l’evidenza storica mostra chiaramente, per gli autori, che le probabilità di fallimento delle grandi banche diversificate non è inferiore a quella delle banche più piccole e specializzate.


Testi citati nell’articolo

Admati A. R., De Marzo P. M., Dellwig M. F., Plefeiderer P., Fallacies, irrilevant facts, and myths in the discussion of capital regulation: why bank equity is not expensive, Stanford Graduate School of Business, Stanford, seconda bozza, 29 ottobre 2010

Clark A., Mervyn King: bankers exploit gullible borrowers to pay for their bonuses, www.guardian.co.uk, 5 marzo 2011

Comito V., Come cambiare il sistema finanziario, in a cura di A. Watt, A. Botsch, R. Carlini, Dopo la crisi, edizioni dell’asino, Roma, 2010, a

Comito V., Riforma delle banche in lista d’attesa, parti 1 e 2, old.sbilanciamoci.info, b

Haldane A., May R., The birds and the bees, and the big banks, www.ft.com, 20 febbraio 2011

Johnson S., The rouinous fiscal impact of big banks, www.nytimes.com, 3 febbraio 2011

Lex, The bank question, www.ft.com, 7 marzo 2011, a

Lex, Bank capital reforms, www.ft.com, 7 febbraio 2011, b

Miles D., Jiing Yang, Marcheggiano G., Optimal bank capital, Bank of England, External MPC Unit, gennaio 2011

Sanderson R., Draghi sounds warning to italian banks, www.ft.com, 27 febbraio 2011

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti