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La natura nel forno. Il riuso-riciclo
Una ricerca di Margherita Bologna mostra i vantaggi per l’ambiente e il risparmio energetico nel sostituire ai “termovalorizzatori” il riuso-riciclo
A parole, la convinzione generale è che per togliere di mezzo i rifiuti, il riutilizzo-riciclaggio sia una soluzione migliore dell’incenerimento. Una volta esaurite le belle parole, tutto cambia. I decisori, nel Bel Paese, sono convinti che la prima soluzione sia, al tempo stesso, quasi impossibile da realizzare, ostacolata in tutti i modi dalle forze reali esistenti sul territorio e trascurabile, se non negativa, in termini di energia prodotta. Dunque, in molte parti d’Italia, a conti fatti, a valle di ogni discarica tradizionale nella quale sono versati i rifiuti urbani e industriali, la soluzione possibile, più logica e quasi obbligata è il forno. È proprio così? Conviene davvero bruciare, oppure sono gli incentivi all’energia prodotta dai forni a spingere in quella direzione? E si produce davvero energia bruciando rifiuti? E quale energia? Esiste al contrario un confronto diretto tra le due soluzioni per mostrare come l’incenerimento “a prescindere” sia non solo una grave infrazione di molte leggi europee e perfino nazionali, ma perfino un errore costoso in termine di sprechi energetici, denaro e inquinamento; e un comportamento pericoloso quanto a salute. Il confronto tra i due modi di smaltire – forno o riciclo – è contenuto nello studio “Qualche proposta per controllare gli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti nella gestione dei materiali postutilizzo senza inceneritori” inviato nel gennaio scorso da Margherita Bologna, una ricercatrice indipendente alla Commissione Bicamerale per i rifiuti in previsione di una prossima visita-sopralluogo in Emilia Romagna.
La proposta è molto concreta. Prevede di sostituire al forno quattro diversi impianti di trattamento meccanico-biologico (Tmb) che selezionano i rifiuti a freddo, riducendo dell’80/90% quelli da incenerire, per trattare secondo diverse tecniche e modalità la frazione organica, i rifiuti secchi, le plastiche, l’immondizia risultante dallo spazzamento delle strade. In tutti i casi si tratta di sistemi esistenti in commercio, non da inventare, disponibili perfino in Italia. Prevede inoltre di mettere in funzione un centro studi dei “materiali residui non riciclabili” per riprogettare la produzione delle merci “al fine di raggiungere in tempi brevi l’obiettivo non utopico del riciclo totale”.
Ridurre dell’80/90% i rifiuti significa rendere inutili gli impianti che solo in Italia si chiamano “termovalorizzatori” che per funzionare a regime e rendere profitti hanno bisogno di bruciare masse consistenti, integrando anche i rifiuti con metano, per aumentare la temperatura se il Cdr (Combustibile da rifiuti) non ha sufficiente potere calorifico.
Si mette anche in luce il fatto che i cinquanta o giù di lì termovalorizzatori operanti in Italia sono troppo spesso connessi nelle stesse imprese che gestiscono le discariche e la raccolta urbana, da non rendere sospetta la propensione alla raccolta differenziata che talvolta città e paesi mostrano, pur fingendo grande attivismo con gli inutili “cassonetti” disseminati senza regole lungo le strade. Scrive per esempio la ricercatrice: “Per ottenere energia dai rifiuti la tecnica più appropriata è la produzione di biogas mediante un processo di digestione anaerobica della frazione organica. Questo metodo offre un duplice vantaggio: quello di produrre energia rinnovabile e, attraverso la successiva fase di trasformazione aerobica del ‘digestato’, restituisce la sostanza organica ai terreni, resi sterili da pratiche di concimazione chimica spinta e ormai prossimi alla desertificazione”.
Il testo completo della ricerca Qualche proposta per controllare gli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti nella gestione dei materiali postutilizzo senza inceneritori è scaricabile in pdf
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