Home / Newsletter / Newsletter n.142 - 22 ottobre 2011 / Il modello sociale, pilastro dell’unità europea

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Il modello sociale, pilastro dell’unità europea

Il modello sociale, pilastro dell’unità europea

22/10/2011

L’Unione Europea potrà affrontare con successo le sfide che la crisi in atto pone sul suo cammino solamente se riuscirà a rafforzare la propria unità. Tale processo richiede importanti e difficili interventi strutturali. Da più parti si rimanda alla necessità di trovare nuove forme di governance economica e politica – in sostanza di governo – dell’Unione. Esse richiederanno profonde quanto ardue modifiche dei trattati costitutivi – Maastricht, Lisbona, Amsterdam – nonchè di istituzioni quali la CE e la Bce. Tuttavia, per quanto siano essenziali, le riforme strutturali o istituzionali non basteranno da sole a rafforzare le radici dell’Unione europea. E’ necessario che un maggior numero di cittadini arrivino a convincersi che l’Unione Europea è un grandioso progetto politico, economico, sociale, culturale che presenta elementi unici al mondo. Uno di questi elementi, forse quello che potrebbe avere la maggior forza unificante per i cittadini Ue, è a mio avviso il modello sociale che si ritrova nella Ue e, in tutto il mondo, solamente in essa.

L’espressione modello sociale europeo suona un po’ astratta, ma è ricca di significati concreti. Essa designa un’invenzione politica senza precedenti, forse la più importante del XX secolo. Essa significa che la società intera si assume la responsabilità di produrre sicurezza economica e sociale per ciascun singolo individuo, quale che sia la sua posizione sociale. Produrre sicurezza economica richiede la costruzione di sistemi di protezione sociale avendo in vista una serie di eventi che possono sconvolgere in qualsiasi momento la vita di chiunque. Sono la malattia, l’incidente fisico, la disoccupazione, la povertà, la vecchiaia. (E’ vero che la vecchiaia non arriva all’improvviso, ma in questa stagione della vita tutti gli altri eventi possono rivelarsi assai più gravi). Detti sostegni si chiamano pensioni pubbliche non lontane dall’ultima retribuzione; un sistema sanitario nazionale di qualità accessibile a tutti, quali che siano le loro disponibilità economiche; vari tipi di sostegno al reddito in caso di difficoltà, un esteso sistema di diritti del lavoro, e altre cose ancora. Negli ultimi cinquant’anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone ed ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori.

Nessun altro paese al mondo, o aggregazione o confederazione o altro, può esibire qualcosa di simile al modello sociale europeo. Esso ha costituito sino ad oggi un formidabile baluardo per contenere i costi umani e sociali della crisi apertasi nel 2007. Entro l’Unione Europea non vi sono al momento quaranta milioni di persone la cui sussistenza dipende dai bollini alimentari mensili erogati dallo Stato, come avviene invece nagli Stati Uniti. Non ha nemmeno decine di milioni di persone impossibilitate a ricevere, in caso di bisogno, un’adeguata assistenza sanitaria perché non potrebbero mai pagare un’assicurazione da parecchie migliaia di euro l’anno. Superfluo aggiungere che nulla di vagamente approssimabile al modello sociale europeo esiste nei paesi emergenti, dalla Cina all’India, o in quelli più avanzati sulla strada dello sviluppo, dal Brasile alla Russia. Pertanto, una prima buona ragione per riconoscere nel modello sociale un elemento fondativo dell’unità europea consiste dunque nella sua unicità.

Un’altra buona ragione per scorgere nel modello sociale europeo un efficace fattore di integrazione dell’Unione è che tanto nelle sue origini quanto nel suo sviluppo si sono intrecciate culture e prassi politiche del tutto differenti. Un contributo rilevante allo sviluppo del modello è provenuto da forze politiche liberali o conservatrici. Colui che si può definire l’inventore del moderno Stato sociale, William Henry Beveridge, lui stesso un moderato, pubblicò il suo primo rapporto - Social Insurance and Allied Services - in piena guerra, nel 1942, su richiesta del governo conservatore di Winston Churchill. Il quale poi ne adottò su larga scala i suggerimenti. In un secondo rapporto, del 1944, Beveridge proponeva un piano per favorire l’occupazione e una più equa distribuzione del reddito. Va da sé che né Beveridge né Churchill erano mossi solamente da intenti umanitari. Intendevano contrastare l’influenza ideologica e politica dell’Unione Sovietica, che essi prevedevano si sarebbe estesa in Europa dopo la guerra, come in effetti avvenne. Resta il fatto che in seguito al piano concepito da un liberale fu sviluppato nel Regno Unito quello che fu per vari decenni il più avanzato ed esteso Stato sociale del mondo.

Altre grandi componenti politiche e culturali alla base dello sviluppo del modello sociale europeo sono stati i partiti socialdemocratici; le formazioni variamente denominate dei cristiani sociali; e non da ultimo le culture e i partiti che si rifacevano all’ideologia comunista. In Italia l’istituzione del servizio sanitario nazionale, che data solamente dal 1978, è stata fortemente sostenuta dal Pci. Nella parte dell’Europa occidentale rimasta per quarant’anni sotto il controllo sovietico, la DDR si è distinta per una forna di Stato sociale che puntava soprattutto a produrre sicurezza socio-economica per la maggioranza della popolazione. All’obiezione che i governi della DDR hanno usato lo Stato sociale per accrescere il consenso nei loro confronti, è agevole opporre che ovunque forme di Stato, ovvero di modello sociale, siano state sviluppate in Europa, una componente non trascurabile di tali operazioni è stata l’intenzione dei governi e delle formazioni politiche che li esprimevano di accrescere il consenso popolare nei loro confronti.

Ci si deve ovviamente chiedere se sia corretto parlare di “modello sociale europeo” come se si trattasse di una condizione unitaria di tutti o quasi i 27 paesi della Ue, mentre in realtà vi sono tra di essi notevoli differenze. Non foss’altro perché molti facevano parte fino agli anni 90 della sfera sovietica ed hanno una storia economica, politica e sociale ben diversa dai paesi dell’Europa occidentale. Ora è vero che non si può parlare di un unico modello di Stato sociale nella Ue. Pensiamo ai servizi alla famiglia, ad esempio, molto sviluppati in paesi come la Danimarca ed i paesi scandinavi mentre sono gravemente carenti in paesi come il nostro. Resta comunque il fatto che nel loro insieme i paesi europei, in specie i paesi dell’Europa occidentale, hanno condiviso per decenni varie forme di Stato sociale che hanno la funzione di proteggere persone e famiglie da quei vari tipi di avversità che ho già ricordato, dalla povertà alla vecchiaia, dall’incidente alla malattia e alla disoccupazione.

E’ un paradosso dell’Unione Europea che, dopo avere eretto questa sorta di grande edificio civile a partire nientemeno che dagli anni Quaranta, quando era ancora in corso la Seconda guerra mondiale, i paesi suoi membri abbiano iniziato una campagna che, se non è ancora di vera e propria demolizione del modello sociale europeo, comincia pericolosamente ad assomigliargli. Dove risiede il paradosso? Da un lato abbiamo la crisi dei bilanci statali, con l’aumento del deficit, cresciuto in media di dieci volte in pochi anni – dallo 0,7 al 7 per cento tra il 2007 e il 2009 – e il corrispettivo aumento del debito pubblico. Dall’altro si osserva che la spesa per lo Stato sociale è rimasta nello stesso periodo affatto stabile. Nondimeno accade che i paesi europei, tanto quelli governati da forze politiche di destra o di centrodestra quanto quelli governati da forze di centrosinistra, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore per risanare i bilanci non può che consistere nella riduzione della spesa inerente alle varie componenti dello Stato sociale che ha dato corpo al modello europeo. In tutta la Ue gli interventi a favore della cosiddetta austerità vanno palesemente in tale direzione.

Occorre riconoscere che vi sono fattori materiali che pongono a severe prove la sostenibilità nei prossimi decenni del modello sociale europeo. Essi vanno visti anzitutto nell’aumento dei costi di produzione e riproduzione – biologica, sociale e culturale – dell’essere umano al livello di civiltà che abbiamo raggiunto. Far studiare i figli per vent’anni, dalla materna all’università, costa molto di più che non metterli al lavoro appena finita la scuola dell’obbligo. I progressi della medicina e della chirurgia continuano a migliorare la durata e la qualità della nostra vita, ma richiedono infrastrutture e tecnologie sempre più costose. Le persone non muoiono opportunamente poco dopo essere andate in pensione, come accadeva quando Bismarck – illustre antenato conservatore dello Stato sociale - introdusse uno dei primi sistemi previdenziali obbligatori. Vivono in media circa vent’anni dopo il collocamento a riposo, e le casse degli enti pensionistici ne soffrono. Anche se non soffrono affatto nella misura che gli avversari preconcetti del modello sociale europeo sono usi denunciare.

Sussistono tuttavia robuste ragioni per difendere le basi del modello sociale europeo. La più ovvia, che le politiche adottate in tale campo fortemente sottovalutano, è che il venir meno della sicurezza socio-economica alla quale le popolazioni europee erano abituate, che esse consideravano un elemento ovvio d’una vita normale, tende ad accrescere tra di esse la frustrazione, il malcontento e anche il conflitto sociale, quale sia la forma che questo può prendere. E accresce tali stati negativi in misura assai maggiore, si noti, che se la cennata sicurezza non fosse mai esistita. Milioni di famiglie europee che hanno perso il lavoro o lo vedono a rischio nel vicino futuro, si vedono pure tagliare i sostegni al reddito, e nel contempo vedono aumentare fortemente i costi della sanità mentre peggiorano le prospettive di ricevere a tempo debito una pensione adeguata. Ciò ingenera frustrazione e rabbia, non solo nelle classi a reddito più basso, le classi lavoratrici - gli operai, gli impiegati, i commessi, gli insegnanti -, ma anche in gran parte della classe media, perché la minaccia di disoccupazione o del lavoro precario da un lato, e la realtà dei tagli allo Stato sociale dall’altro, toccano fortemente anche queste classi. Quindi l’austerità dei bilanci, concentrata unicamente sulle spese necessarie per sostenere lo Stato sociale, ha questo primo risultato di accrescere le tensioni sociali e i risentimenti. Stati d’animo che non si può mai prevedere quale orientamento, anche politico, possano prendere.

Tuttavia l’elemento di maggior peso che occorre in ogni caso difendere è la concezione stessa alla base del modello sociale eropeo. I costi dell’essere umano sono così elevati, così imprevedibili per ogni persona, così onerosi per le famiglie e per la persona quando non si riesce a coprirli, da richiedere che la responsabilità di sopportarli sia assunta dalla società nel suo insieme, ovvero dallo Stato, come uno degli scopi più alti della politica, anziché essere accollata senza remore né mediazioni al singolo individuo. E’ questa l’idea che ad onta delle immense differenze di storia, cultura, linguaggio o geografia che li dividono può far crescere nei cittadini dell’Unione il senso profondo di far parte di un grande progetto di incivilimento, di progresso sociale, che non ha paragoni nel mondo. E porli in questo modo in condizione di affrontare le sfide che li attendono, a cominciare dalle riforme: quelle eventuali del modello sociale, ma anche quelle strutturali che appaiono ormai indispensabili per rendere democraticamente governabile, e governata, l’Unione Europea.

(Questo intervento è stato elaborato in occasione di un convegno sul modello sociale europeo, il 20 dicembre 2011, presso la Camera dei deputati. Il convegno non si è svolto per cause di forza maggiore).