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Francia-Germania, l'asse incrinato
Sarkozy annunciava che il peggio della crisi era passato, ma i fatti del presente lo contraddicono. In primis, il confronto con la Germania: ora Parigi teme lo sganciamento
PARIGI. La Francia ha fatto pressioni sulla Germania, per vincere le reticenze di Berlino su un piano per salvare la Grecia. L’idea di Parigi è di varare un piano intergovernativo – i trattati europei, se presi alla lettera, non contemplano la possibilità di un salvataggio di un paese in fallimento – che eviti una crisi generalizzata dell’euro, prima che gli attacchi dei mercati si diffondano in tutti i “cinque porcellini” (i piigs, acronimo per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). La Francia ha paura. Bruscamente, all’inizio di febbraio, di fronte all’attacco all’euro, il governo francese ha presentato a Bruxelles un piano che si guarda bene dal definire “di rigore” - a marzo ci sono le elezioni regionali, difficili per il partito di Sarkozy – ma che nei fatti è una svolta a 180 gradi rispetto alle posizioni precedenti.
Sarkozy aveva affermato da poco che il peggio della crisi era passato e che la politica di sostegno alla ripresa doveva continuare, per non penalizzare l’occupazione, in un paese dove il numero dei senza lavoro è già di 2,61 milioni (9%), cifra che sale a 3,82 milioni se si addizionano coloro che sono in attività ridotta senza volerlo. Nel novembre scorso, Parigi aveva definito le ingiunzioni di Bruxelles a correggere i deficit pubblici semplicemente “irrealiste”. Nell’ultimo trimestre del 2009 la crescita era ripresa, con un inaspettato + 0,3%. Seguendo il piano di rilancio concepito l’anno scorso per far fronte alla ricaduta economica della crisi finanziaria, lo Stato ha immesso nell’economia finora 31 miliardi di euro (sui 38,8 stanziati per il periodo 2009-2010). Gli enti locali hanno investito per 42 miliardi. Le imprese hanno goduto di sgravi fiscali per 15 miliardi, e di 3,8 miliardi di prestiti garantiti. Ma, sotto la pressione di quegli stessi mercati che hanno portato il mondo sull’orlo del baratro, il governo ha fatto marcia indietro. “Il panico finanziario – afferma l’economista Philippe Martin – obbliga i governi a varare piani di rigore nella precipitazione, è pericoloso per la crescita dei prossimi anni e in fine per la sostenibilità del nostro debito”. Praticamente, il governo ha promesso la luna: un ribasso del deficit spettacolare, per rientrare nei ranghi dei parametri di Maastricht del 3% entro tre anni (ora è all’8,2%), un colpo di freno all’aumento del debito pubblico, che è di 1500 miliardi di euro (cioè 74% del Pil, mentre il tetto di Maastricht è 60%). Un attacco in regola contro gli “spendaccioni” degli enti locali, accusati di aver aumentato la spesa del 6% mentre “lo Stato in fallimento”, secondo la definizione sfuggita al primo ministro François Fillon qualche mese fa, faceva economie. Ma le regioni, 20 delle quali su 22 sono governate dalla sinistra che rischiano di esserlo di nuovo dopo il voto di marzo, rispondono di aver speso per investire e di essere le sole a farlo, mentre lo Stato sta applicando una cura dimagrante sanguinosa, con la regola applicata pressoché in tutti i settori - a cominciare dalla scuola - della non sostituzione di un funzionario su due che va in pensione (33.749 posti di lavoro statali soppressi quest’anno). Sarkozy ha annunciato, per il dopo elezioni, una riforma pesante delle pensioni, per alzare l’età pensionabile e aumentare il numero di anni di contributi. La svolta dell’inizio di febbraio ha pero’ evitato accuratamente di intervenire sul peccato originale della presidenza Sarkozy: lo scudo fiscale, che protegge i redditi più alti (non è possibile pagare più di 50% del reddito in tasse), mentre continuano a prospetare le “nicchie” fiscali, privilegi vari, che privano lo Stato di 65 miliardi di euro di entrate l’anno.
La Francia teme soprattutto il décrochage, lo “sganciamento” dalla Germania. Le due principali economie della zona euro, spiegano gli economisti, stanno divergendo, ormai ad un livello difficilmente recuperabile. L’unica strada, per Parigi, è recuperare sul fronte della politica, in un periodo in cui l’intervento pubblico e la ripresa in mano dell’economia da parte dei governi sembra essere di nuovo diventata una posizione presentabile, grazie alla crisi. La scorsa settimana, in occasione del consiglio dei ministri franco-tedesco, sono stati presi impegni su un’ottantina di progetti comuni. “Il nostro messaggio d’allerta non è legato alla crisi economica – ha spiegato Francis Mer, ex Arcelor, presidente del Club economico franco-tedesco - ma al modo in cui la Francia e la Germania hanno reagito, cioè in modo non coordinato. E man mano che la fragile ripresa tecnica si mette in opera - la quale rischia del resto di frenare nel secondo trimeste di quest’anno - domina la sensazione che i nostri due Paesi ritroveranno le vecchie abitudini dell’ognuno per sé”.
Michel Barnier, commissario al mercato interno, ha intenzione di proporre a breve una direttiva sui mercati dei prodotti derivati (in particolare i Cds, i crediti per assicurarsi contro i rischi di default dei debitori, Stati o imprese), che sfuggono ad ogni controllo. Sarkozy vorrebbe rendere incostituzionali i deficit e da mesi afferma, con una buona dose di approssimazione, che questa è diventata la regola in Germania.
A preoccupare Parigi è soprattutto la divergenza con la Germania rispetto alla posizione rispettiva dei due paesi nel commercio estero, anche se, nei momenti peggiori della fase finanziaria della crisi, l’anno scorso, Parigi si era sentita anche più forte di Berlino, più dipendente dal commercio estero, mentre qui sono i consumi della famiglie a trainare l’economia. Ma la Germania continua a chiudere i conti con l’estero in attivo, malgrado la crisi. Invece, la Francia arranca: nel 2009, ha chiuso con un deficit commerciale di 43 miliardi di dollari, un po’ migliore del 2008 (55,7 miliardi, un record), ma solo grazie al rallentamento economico e al ribasso del barile. Solo nell’aeronautica (dove esiste una forte collaborazione con la Germania) l’export tiene, mentre anche il settore dei servizi, punto tradizionalmente forte per la Francia, è in calo. La preoccupazione maggiore dello “sganciamento” riguarda la deindustrializzazione del paese. La parte di mercato della Francia nell’export mondiale va degradandosi ormai da una quindicina di anni. Molte fabbriche chiudono. Continental, Morleix, Philips a Dreux, le chimiche Celadane e Clariant, Bosch, Saint-Gobain Abrasifs di Lisiex la cui chiusura è prevista ad aprile, la raffineria Total di Dunkerque, città dove ha già chiuso la Rexan (ex Pechiney), sono i nomi più noti del disastro industriale degli ultimi mesi. Renault, malgrado le ingiunzioni dello stato azionista (al 15%) non rinuncia a produrre in Turchia e investe in Algeria, mentre annuncia una perdita di 3 miliardi di euro nel 2009 (e un 2010 ancora più difficile, con la fine degli aiuti alla rottamazione). E non ci sono nuove fabbriche che aprono, poiché la Francia è in ritardo, rispetto alla Germania, sia sull’high-tech che sulle energie verdi, due settori trainanti.
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