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Abolire l'Irap? Giavazzi sbaglia
In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere, dal titolo L’IRAP punisce chi dà lavoro, Francesco Giavazzi invita il governo a considerare, tra le misure di contrasto alla crisi, l’abolizione dell’IRAP. In breve, egli lamenta il fatto che tale imposta debba essere pagata anche da imprese in perdita. Afferma che essa punisce le imprese che hanno cercato di proteggere il lavoro, non ricorrendo alla cassa integrazione. Conclude richiamando Berlusconi alla sua promessa di abolire tale imposta, magari rimpiazzandola tornando ai vecchi contributi sanitari. Purtroppo, il ragionamento di Giavazzi sembra basarsi su una considerazione parziale della materia su cui si esprime, e questo lo induce a compiere una serie di errori.
Come è noto, l’IRAP è un’imposta sul valore aggiunto (di tipo reddito netto) delle imprese e degli enti pubblici, e grava dunque su tutti i fattori che concorrono all’attività produttiva: lavoro, capitale di rischio e capitale di debito. È cioè un’imposta ad ampia base imponibile, con aliquota contenuta (intorno al 4%). Essa rappresenta il principale tributo proprio delle Regioni.
Come regola generale, quando si ragione dell’abolizione di un’imposta, si dovrebbe sempre indicare come debba essere coperta la riduzione di entrate. Ciò vale anche quando le risorse provengono da una riduzione di spesa, in quanto ogni proposta di ridurre o eliminare un’imposta a fronte del minor fabbisogno è sempre in concorrenza con la riduzione o eliminazione di altre imposte. Il ragionamento sulle imposte è cioè sempre concettualmente un ragionamento “a bilancio in pareggio”, in cui si valuta l’effetto differenziale della sostituzione di un’imposta con un’altra. Da questo punto di vista, Giavazzi non è del tutto esplicito. Da un certo punto di vista egli sembra sottolineare i presunti difetti dell’IRAP nel confronto con un’imposta sui profitti. A tratti sembra invece invitare Berlusconi ad attenersi al suo programma, ripristinando i contributi sanitari.
Dovrebbe essere chiaro che entrambe le soluzioni, sia i contributi sanitari che l’imposta sui profitti, sono peggiorative rispetto all’IRAP.
Se il minor gettito IRAP dovesse essere infatti garantito dalla reintroduzione dei contributi sanitari, si determinerebbe un aumento del cuneo fiscale, e quindi un incentivo sostituire lavoro con capitale, con effetti sull’occupazione ancora più forti di quelli che Giavazzi lamenta riguardo all’IRAP.
D’altra parte, Giavazzi rimprovera all’IRAP il fatto che l’impresa subisce un prelievo anche in presenza di perdite. Il confronto è implicitamente con un’imposta sul reddito di impresa, che prevederebbe in questo caso un prelievo nullo. Rispetto a questo rilievo possiamo avanzare due ordini di considerazioni.
La prima è che, come abbiamo già detto, i profitti rappresentano solo una parte della base imponibile dell’IRAP, che comprende anche gli oneri sul debito e il costo del lavoro; non essendo e non volendo essere l’IRAP un’imposta sul profitto, bensì su una base più ampia corrispondente al valore aggiunto, il fatto che vi sia prelievo anche quando il profitto è negativo non ha in sé nulla di strano, così come non desta alcuno stupore il fatto che un’impresa in perdita continui a pagare ad esempio i contributi sociali.
Il secondo aspetto da considerare è che, così come in periodi di prosperità il fisco partecipa attraverso le imposte ai profitti dell’impresa, esso partecipa alle perdite dell’impresa nelle fasi recessive. Nel caso dell’imposta sul reddito di impresa, tale meccanismo opera attraverso la possibilità di riportare le perdite agli esercizi successivi; così, se oggi ho perdite di 100 e domani profitti di 200, domani pagherò i profitti soltanto su 100; è come se la presenza di perdite desse luogo ad un’imposta negativa in un periodo successivo. Ma da questo punto di vista l’IRAP produce, a parità di aliquota, un effetto ancora più vantaggioso per l’impresa. Infatti, la presenza di perdite consente un recupero immediato di imposta, attraverso la compensazione con l’imposta dovuta per il lavoro. Vale a dire che se l’impresa ha costi di lavoro pari a 300 e perdite per 100, essa pagherà l’IRAP corrispondente ad una base imponibile di 200.
Ma c’è altro. La base imponibile dell’IRAP viene calcolata come differenza tra valore della produzione (fatturato e incremento delle scorte) e acquisti di beni e servizi intermedi, al netto degli ammortamenti (quest’ultimo aspetto è una delle differenze rispetto all’IVA). Ciò significa che, a parità di produzione e di acquisti da parte dell’impresa, una variazione della quantità di lavoro impiegato non ha di per sé alcun effetto sull’ammontare dell’imposta pagata. Ce l’ha solo in quanto si riflette sulla produzione. L’affermazione centrale di Giavazzi, quella per cui tale imposta punisce le imprese che non licenziano, è dunque quanto meno discutibile.
Più in generale, Giavazzi sembra dimenticare che tale imposta fu introdotta proprio per redistribuire su una base più ampia un carico fiscale che in precedenza, con i contributi sanitari e con l’ILOR, gravava sul lavoro e sul capitale di rischio, incoraggiando il capitale di debito. La sua introduzione ha comportano dunque un riequilibrio del carico tra equity e debito, finalizzato ad incoraggiare una maggior capitalizzazione delle imprese.
Questa dell’abolizione dell’IRAP è una questione che periodicamente riaccende il dibattito, ma il tema sembra essere stato ormai sufficientemente approfondito. Possiamo qui rimandare ai contributi di Cecilia Guerra e Silvia Giannini (si veda ad esempio questo contributo del 2005). Le conclusioni di coloro che conoscono la materia sembrano essere molto diverse da quelle raggiunte da Giavazzi, se studiosi come R. Bird o M. Keen esprimono apprezzamento per le sue caratteristiche,[1] e se imposte analoghe all’IRAP sono state suggerite anche in altri paesi (Canada, Francia, Giappone).
- Bird ha definito l’IRAP «la migliore approssimazione ad una buona imposta locale nelle imprese che oggi esista» (”A new look at local business taxes”, Tax Notes International, 19/5/2003 [↩]