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Abitare al Regina Elena. Cronaca di uno sgombero
Primo settembre, prime luci dell’alba. Il rumore improvviso di una sega elettrica sul cancello, giusto il tempo di affacciarsi per rendersi conto di quanto sta accadendo, di infilarsi un paio di pantaloni e “loro” sono dentro. Nei sotterranei, per bloccare le vie di uscita secondarie; sulle terrazze, per evitare possibili strategie di opposizione. Le scale e i pianerottoli sono bloccati. Non c’è niente da fare. Chiedono di raccogliere il necessario e di seguirli senza opporsi. Cosa fare? Non c’è tempo per pensare. Occorre agire. La scelta è subito fatta: resistere. Ci si raduna nel salone al primo piano, quello dove giocavano i bambini. Poi l’attesa. Una lunga attesa, durante la quale non è consentito neanche raggiungere i bagni. Per ovviare a questo, viene sfilato un cassetto da un mobile della sala e lì, coperti da compagne o compagni, bambini, donne incinte e persone anziane provvedono ai loro bisogni. Poi, alle 13.00, la resa.
Così, nel racconto di M., il ricordo di quella mattina.
Il primo settembre, infatti, è stato dato il via allo sgombero degli occupanti degli edifici dell’ex-Istituto Regina Elena di Roma. Una struttura, di proprietà dell’Università “La Sapienza”, occupata poco più di due anni fa, dopo averne registrato il persistente stato di abbandono da tre movimenti di lotta per il diritto alla casa (vedi anche, in questo stesso numero, l’articolo di Roberto De Angelis). Azione criticabile, comunque non condivisa da chi scrive, ma comprensibile di fronte all’inerzia di chi dovrebbe custodire e impiegare tempestivamente ed efficientemente le risorse pubbliche disponibili da destinare ai fini istituzionali per cui sono state acquisite; di fronte alla sempre più stringente condizione di emergenza alloggiativa in cui versa una fetta consistente di popolazione, di cui nessuna giunta, di destra o di sinistra, si è fatta carico nel tempo. Una vera e propria patata bollente che le amministrazioni che si sono avvicendate al governo della città si sono passate di mano in mano, di consiliatura in consiliatura.
Chi sono gli occupanti
Qualcuno si è mai domandato seriamente chi fossero quelle persone, quelle famiglie che continuavano insistentemente a rivendicare il loro diritto all’“abitare” irrealizzabile senza la «rimozione di quegli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 della Costituzione)?
E dire che oggi, più che mai, la rimozione di tali ostacoli è divenuta inderogabile, alla luce delle mutate condizioni economiche del paese e della grave crisi congiunturale dei mercati finanziari, di cui sta pagando il prezzo più salato proprio quel “ceto medio” che, a lungo garantito e protetto da processi di esclusione sociale, sperimenta inattese e brusche frenate di percorso, se non addirittura delle vere e proprie svolte al negativo, che ne fanno registrare la “caduta” senza reti di protezione.
Si tratta di famiglie monoreddito (1200-1300 euro medi mensili) con figli, in cui l’unico percettore, che disponeva di un’occupazione sicura, con contratto a tempo indeterminato, si trova a perderla, entrando in cassa integrazione o in mobilità, con una drastica riduzione delle risorse economiche disponibili, alla quale fanno seguito una serie di difficoltà, prima tra tutte l’impossibilità di far fronte alle spese di affitto e alle utenze. Sono uomini tra i 35 e i 54 anni, sui quali la recessione ha già iniziato a farsi sentire, bruciando posti di lavoro e dilatando i tempi di durata della disoccupazione, come documenta l’ultimo Rapporto Istat sulla situazione del paese. Un discorso analogo vale per le giovani coppie, in cui entrambi i partner hanno occupazioni atipiche o “non standard”, in cui l’instabilità lavorativa si traduce in interruzione dei rinnovi con pesanti ripercussioni sul reddito disponibile. Anche in questi casi, la prima difficoltà con cui ci si trova a dover fare i conti è il mantenimento dell’alloggio, il più delle volte in affitto.
Altri sono stranieri, che ormai da anni lavorano nel nostro paese e che hanno nella prospettiva dell’housing sociale la sola possibilità per uscire da condizioni di affitto al limite della decenza, dove la convivenza promiscua di più nuclei e più persone è ormai la norma. Non è un mistero che a Roma si speculi sugli affitti. Appartamenti offerti a prezzi vertiginosi in cui arrivano a convivere anche da 10 a 15 persone.
Le “dimore” della Casa della Pace
Questi gli occupanti dell’ex Regina Elena. Non persone che “ci marciano”, come si dice in giro; non gente che ci specula. Non sono “brutti, sporchi e cattivi”. Magari anche clandestini! Non è così.
Una ricerca condotta per conto della Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale (Cies) dal Dipartimento di Studi sociali, economici, attuariali e demografici della “Sapienza”, alloggiato in una palazzina confinante con quelle che, fino al 31 agosto, erano state occupate, ha consentito di conoscere questa gente, di entrare nelle loro stanze, di visitare la struttura in cui hanno fissato la loro dimora, di conoscere la loro organizzazione interna, le regole della loro convivenza; così come i loro percorsi esistenziali, i loro sogni e aspettative, il desiderio di sentirsi parte della nostra città, di “stare dentro” il sistema e non fuori. Sono cittadini traditi nel loro diritto ad essere protetti e tutelati da un paese (prima era minuscolo: come ci comportiamo?), che non è stato capace di assumersi la responsabilità di programmare e pianificare una seria politica per la casa, basata su una strategia di lungo periodo e non sul tamponamento dell’emergenza.
Quando il primo settembre è partito lo sgombero, è stato inevitabile chiedersi che cosa ne sarebbe stato di loro.
Non si dispone di elementi per riferire sull’esito complessivo dell’azione, ma è stato possibile accertare cosa ne è stato di oltre 70 nuclei che attualmente sono ospitati presso un centro di prima accoglienza per rifugiati sito in via Casilina: la Casa della Pace. Appena superata Tor Bella Monaca, ci si trova in un’area industriale densa di capannoni e stabilimenti, all’interno della quale è situata questa struttura che, dall’esterno, potrebbe essere benissimo confusa con uno degli altri capannoni, se non fosse per uno striscione del “Comune di Roma” che ne tradisce la diversa destinazione.
E, infatti, salendo le scale interne, si accede a un lungo e largo corridoio, sul quale si affacciano una serie di porte numerate, dietro le quali si aprono le nuove “dimore” degli ex-occupanti del Regina Elena. Dormitori con 6-8 letti di ferro a castello, smontabili, per essere usati come singoli o matrimoniali. Due, tre armadi, una scarpiera, qualche comodino. Niente più. In giro, abiti, sacche, oggetti personali. L’aria condizionata non funziona, così sono stati distribuiti dei ventilatori da terra, ma non a tutti perché non ve ne erano a sufficienza. Nessuna privacy: i divisori tra una stanza e l’altra sono dei tramezzi di plastica. Gli ospiti non dispongono della chiave delle loro stanze. C’è un sorvegliante di corridoio che apre e chiude le porte a richiesta dell’ospite. Capita che di giorno o di notte i sorveglianti entrino senza bussare nelle stanze, per effettuare controlli. Una sorta di “libertà vigilata”. I bagni sono comuni. C’è quello per gli uomini e quello per le donne. In ognuno ci sono numerose docce, la maggior parte senza divisori in muratura, senza tende, aperte. Due file di gabinetti, non tutti funzionanti. Sul lato opposto alle stanze, diversi saloni, ampi, luminosi, angosciosamente vuoti. Al massimo, al centro, un piccolo tavolo, dove sono state fatte le assegnazioni delle stanze. Poi il refettorio, circa 80 posti a sedere: sedie di paglia e tavoli di fòrmica. Il pranzo, un catering “da ospedale”, così è stato definito da alcuni ospiti, che preferiscono comprarsi un panino fuori, piuttosto che mangiare pasta scotta e scondita, secondi freddi e insapori.
Sulla porta del bagno delle donne un annuncio, che avverte dell’arrivo del pediatra. Perché in questa struttura vivono diversi bambini, alcuni dei quali girano in bicicletta nel corridoio. Le bici dei bimbi sono tra i pochi beni non strettamente personali che è stato consentito agli ospiti di portare nella struttura. Infatti, le mobilia, gli elettrodomestici e quanto gli ex-occupanti avevano nelle stanze di via Regina Elena sono stati trasportati (e il trasloco è tuttora in corso) nei depositi del Comune, nell’area della Fiera di Roma. I più fortunati, con qualche stratagemma, sono riusciti a portare con sé la tv, un frigorifero e poco più. Cosa ne sarà effettivamente di questi beni non è dato saperlo con precisione: gli ex-occupanti sono stati rassicurati che saranno trasportati con cura, contrassegnati col numero della stanza e dell’edificio da cui sono stati rimossi e custoditi in depositi comunali. Tuttavia, la dinamica del trasloco lascia non pochi dubbi sull’effettivo rispetto di questo impegno. Alcuni beni sono stati rimossi e traslocati con montacarichi idonei allo scopo; per altri non è stato così. Si è assistito a lanci di lavatrici, forni a microonde, tavoli e sedie dal secondo, terzo e quarto piano, centrando la stiva di un grosso cassone metallico. Il tutto in un caos infernale.
Non scoop, ma politiche
Quale sia il destino di queste persone, dopo due anni di occupazione, non è dato sapere. Basta guardare lo spaesamento sui loro volti. Nessuno, almeno per ora, sa dire loro cosa c’è oltre quelle porte. C’è chi dice che la Casa della Pace è stata presa in affitto dal Comune per i prossimi sei mesi, dopodiché ci sarà la strada; chi invece è convinto che quella situazione provvisoria porterà ad una casa in emergenza alloggiativa. Il problema è che anche i movimenti non ne sanno molto. E non sanno cosa dire alle persone che finora li hanno seguiti, sostenuti e appoggiati.
Chi ha lottato e combattuto per il movimento e per la casa non riesce ad accettare questa situazione di incertezza. Cerca delle risposte. E c’è da chiedersi se la soluzione al dilemma stia nella prosecuzione di una lotta senza fine, che rischia di non fare l’interesse di nessuno, a meno che non ci si renda conto della necessità di fare un passo indietro: l’amministrazione, nel riconoscere che i movimenti di occupazione, seppur con metodi illegali, hanno di fatto evitato che a Roma accadesse quanto è accaduto nelle banlieues di Parigi, agendo da potenti ed efficaci ammortizzatori sociali; i movimenti, nel respingere la tentazione ideologica di una lotta senza confine il cui prezzo cadrebbe “sulla pelle” di chi vi ha maggiormente contribuito.
Il movimento dovrebbe avere come obiettivo il suo stesso scioglimento, in quanto ciò significherebbe che gli obiettivi della lotta sono stati raggiunti e l’amministrazione ha adottato misure politiche idonee a risolvere il problema del diritto all’abitare. L’amministrazione, da parte sua, dovrebbe cogliere questa occasione per ripensare radicalmente le politiche per la casa, rinunciando alla tentazione di facili scoop sensazionalistici o a misure propagandistiche legate alla contingenza. Come quel manifesto che, dai giorni immediatamente seguenti allo sgombero, campeggia sui muri della città, “proclamando” la restituzione dell’ospedale ai cittadini, dimenticando che sarebbe stato più opportuno restituire “quei cittadini” alla città, di cui continuano a chiedere di essere parte. Si potrà dire di aver finalmente avviato una nuova stagione delle politiche abitative non solo quando si aprirà un tavolo di trattativa tra le parti sociali, ma quando le istituzioni saranno in grado di ricostruire e rifondare il rapporto con i cittadini sulla base di una autentica analisi delle loro esigenze e con l’intento di rimuovere tutti gli ostacoli che ne limitano, quando non mortificano, il diritto di cittadinanza. Quando le politiche abitative diventeranno un tassello strategico di un sistema di policy che tenga contemporaneamente conto delle politiche economiche e sociali della città.
(L’Autrice è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze demografiche della “Sapienza” - Università di Roma)