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Grande crisi, piccola Europa

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Alle tante somiglianze tra la «Grande crisi del '29» e quella attuale se ne aggiunge un'altra: la diversità dei loro effetti politici negli Stati Uniti e in Europa. Negli Usa, ne scaturì il New Deal, un disegno politico di rinnovamento progressista nell'economia e nella società che prese atto dell'illusorietà fino ad allora diffusa che il mercato potesse risolvere al meglio e da solo tutti i problemi economici e sociali, inclusi quelli di assicurare una distribuzione del reddito sufficientemente equa e un accesso diffuso ai servizi sociali. Questi obiettivi furono rimessi al centro della politica e furono perseguiti introducendo regolamentazioni al mercato e interventi diretti in settori come quello sanitario e pensionistico. In Europa, invece, la grande crisi degli anni trenta contribuì all'ascesa del nazismo in Germania, mentre già in Italia sentimenti di frustrazione nazionalistici alimentati dalle condizioni di povertà post bellica avevano contribuito all'avvento del fascismo.
Venendo alla «Grande crisi del 2008», nel bel mezzo della sua esplosione, le elezioni americane hanno sancito la fine del conservatorismo «bushista» e l'affermazione di Obama che, in aggiunta al colore della sua pelle, si è presentato con un programma di grande cambiamento progressista che è stata premiato dagli elettori. I primi interventi di Obama non sembrano limitarsi ad azioni di contrasto puramente anti congiunturale; ma anche se così solo fosse, indicherebbero comunque una responsabilizzazione dell'intervento pubblico ben più forte e significativo di quanto sta avvenendo in Europa. Obama, pur contornandosi di consiglieri economici coinvolti nella «passata gestione», sta stravolgendo l'assetto proprietario del sistema bancario e produttivo; e anche a livello politico e sociale sta lanciando segnali di grande cambiamento. D'altra parte, ancor prima dell'esplosione della crisi, nei suoi programmi elettorali erano presenti interventi come una riforma sanitaria che dovrebbe incrementare il ruolo pubblico nel settore (si noti che il New Deal introdusse l'assistenza sanitaria ai poveri e agli anziani che a tutt'oggi costituisce la presenza pubblica più significativa nel settore).
In Europa, ancora una volta tira tutt'altra aria. Le misure di reazione sono state e continuano ad essere molto più «misurate» e già si levano forti le grida di allarme tese a ripristinare i criteri di Maastricht, nonostante il Pil previsto per il 2009 sia in calo fino a quasi il 7% nell'economia principale, quella tedesca, e la disoccupazione sia in crescita verso un valore medio del 10%. Ma alle politiche economiche più «conservative» adesso si uniscono anche i risultati elettorali che segnalano un netto spostamento a destra e l'emergere di movimenti fascistizzanti. È stato già segnalato (chi scrive lo temeva da anni) il fenomeno di un «keynesismo di destra» che rievoca le politiche economiche degli anni '30 in Italia e in Germania.
Si è tanto discusso degli errori che le forze democratiche e di sinistra fecero in quegli anni e delle responsabilità loro attribuibili per l'avvento delle dittature. Sarebbe il caso che quella discussione fosse attualizzata alla situazione dei nostri giorni.
Questa necessità appare ancora più forte e urgente per l'Italia che è passata dall' «anomalia» del più grande Partito comunista d'occidente a quella opposta e molto più preoccupante di non avere rappresentanti di sinistra né nel Parlamento nazionale né in quello europeo (tra gli eletti del Pd ci sono rispettabili figure di sinistra, ma - come è noto - i responsabili ci tengono a precisare che quel partito non è di sinistra, al massimo è di centrosinistra). Questo risultato non può essere considerato sorprendente poiché è maturato progressivamente negli ultimi anni ed era largamente annunciato; le cause sono tante e profonde, ma una responsabilità primaria è di molti tra coloro che in questi anni sono stati alla guida delle organizzazioni della sinistra, che tanto meno le adeguavano ai nuovi tempi tanto più le dividevano, esasperando la loro autoreferenzialità fino ai personalismi umorali, e con il risultato ultimo di separare la sinistra dalla sua rappresentanza politica.
Occorre dunque ricominciare a parlare di politica (non dei politici) per affrontare i problemi esistenti e per delineare prospettive per un futuro migliore e possibile a partire dal contesto esistente, che è quello di trovarsi nella più grande crisi del capitalismo dagli anni '30, dalla quale si può uscire in modi anche diversissimi. Sosteneva Keynes: il problema non è tanto nell'affermare le idee nuove quanto nel liberarsi di quelle vecchie; e siccome le idee viaggiano sulle gambe delle persone, ciò che nella sinistra italiana occorre (da tempo) fare viene da sé.

Tratto da www.ilmanifesto.it