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Perché la Cgil non ha firmato l'accordo sul modello contrattuale

28/01/2009

Susanna Camusso, lei che è segretaria confederale della Cgil, ci spiega perché perché la sua organizzazione non ha firmato l’accordo sul modello contrattuale?
Per tante ragioni, ma per tre in particolare.
Le vogliamo indicare?
Certamente. La prima, che mi sembra fondamentale, perché con il nuovo sistema contrattuale non c’è sufficiente tutela del salario. La seconda, perché sul secondo livello non c’è altro che la possibilità di deroga. La terza, perché è passata una norma sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali che non si capisce che origine e finalità abbia.
Ragioni di merito, dunque.
Sì, ma ci sono anche ragioni di metodo. A parte il fatto che ci sia stato presentato un testo che non era modificabile, incuriosisce che un testo che dovrebbe sanzionare la fine del modello universale manifesti invece proprio l’universalità espropriando le categorie del loro potere contrattuale.
Una colpa grave?
Sì, perché invece di indicare un modello flessibile si è costruito un modello dirigista, dove i comitati interconfederali decidono praticamente tutto. Ma se si sottrae alle categorie il loro potere di flessibilità si smonta tutta la funzione della contrattazione. In nome dell’innovazione è stata messa in piedi una piccola scala mobile, l’emblema della rigidità.
Vediamo in particolare i motivi di lamentela. Perché questo nuovo impianto non tutela i salari?
Ci sono varie ragioni. Pesa che l’unica entità economica utile per la definizione degli aumenti sia stabilita extracontrattualmente. Non sono le parti sociali che decidono, quindi. In più quell’indice deciso da altri viene depurato dai costi dell’energia. Non è cosa da poco. E poi anche lo scostamento tra l’indice previsto e quanto si verifica è sempre calcolato al netto dei costi energetici. Quella perdita non viene più recuperata. Ancora, c’è la base di calcolo, il valore punto su cui calcolare gli aumenti: è tutto da definire, ma i conti che circolano sono a tutto svantaggio dei lavoratori. Poi ci sono gli effetti perversi per i dipendenti pubblici.
Anche loro sono penalizzati a vostro avviso?
Loro più degli altri. Perché la definizione dell’indice è subordinato alle risorse messe a disposizione dalla legge finanziaria. Decidono quindi i ministeri competenti, manca un indicatore certo. E poi gli aumenti si calcolano su voci stipendiali che non contemplano non solo gli straordinari, ma anche tutto il salario di produttività. Infine, il recupero avviene solo nel triennio successivo e solo se ci sono le necessarie disponibilità.
Quindi poca tutela?
Troppo poca a nostro avviso.
Ma perché a vostro avviso l’accordo dice poco sulla contrattazione di secondo livello?
A parte le disposizioni specifiche per gli artigiani, e il divieto del ne bis in idem, accettato da tutti, non restano che le agevolazioni fiscali. Quindi tutto ruoterà attorno al premio di risultato. Ma così non riesci a spostare il baricentro della contrattazione. Dove si negozierà tutto il resto, a partire dall’organizzazione del lavoro?
E la deroga?
La cosa peggiore è che si deroga anche sui diritti, quelli che dovrebbero essere per definizione inderogabili. E si mettono sullo stesso piano gli start up e i casi di crisi, innescando così forme di dumping tra le aziende.
E non vi piace la norma sugli scioperi.
Se questo è un accordo di principi, non si capisce perché poi indichi questa norma così specifica e settoriale. E quello che dice quella norma è grave, forse va anche contro la costituzione, perché nega che il diritto di sciopero sia universale nel momento in cui afferma che lo sciopero può essere proclamato solo dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Cos’altro non vi piace di quel testo?
Le norme sulla bilateralità. Temiamo una deriva, la costruzione di una casta. Mi sbaglierò, ma mi sembra che si punti a consentire la costruzione di risorse a beneficio delle organizzazioni, sia sindacali che imprenditoriali. Ed è sbagliato anche la giustificazione della crisi economica in atto. Perché queste norme verranno usate per lo più l’anno prossimo, quando la fase più acuta della crisi dovrebbe essere alle nostre spalle. Ma a quel punto servirebbe una forte ripresa dei salari per aiutare la ripresa, non proprio il contrario.
Avete esposto questo vostro giudizio prima di negare la vostra firma?
Sì, ma il testo che ci è stato proposto era immodificabile.
Ma ne avevate discusso a lungo nei mesi precedenti.
Io non vedevo la Confindustria dal 10 ottobre. E i tavoli dove si stava discutendo e si stava procedendo sono stati tutti fermati. Dei dipendenti pubblici non abbiamo mai discusso.
Avete anche detto che non era il momento di stringere sui contratti.
Abbiamo detto che non era quella la priorità. E l’abbiamo detto perché le avvisaglie erano tutte a indicare che volevano stringere il 22 sui contratti. Cosa che hanno poi fatto.
Adesso cosa succederà?
Noi vogliamo sentire i lavoratori, sono loro che debbono esprimersi. Come nel 1993. Del resto, se questo accordo sostituisce quello di quindici anni fa, è necessario comportarsi alla stessa maniera.
E le prossime piattaforme?
Il rischio è di avere tre o due piattaforme separate. Come è già occorso per i telefonici.
Questo indebolisce il sindacato?
Certo non lo rafforza.

 

Massimo Mascini