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Cancun, fuori dal coro
Il vertice sul clima di Cancun si è chiuso con un accordo raggiunto tra i colossi dell’economia mondiale che non promette orizzonti positivi per i Paesi poveri ed esposti agli impatti dei cambiamenti climatici. Un “accordo bilanciato”, mediato dal governo ospite nella veste del Ministro degli Esteri Patrizia Espinoza, che alla fine dei conti non soddisfa a pieno nessuno ma permette al governo del Messico di salvare il negoziato, senza salvare il clima.
La conferenza di Cancun ha riportato sotto gli occhi di tutti come una quadratura del cerchio più ampia sia necessaria, anche se forse non sufficiente, a risolvere la questione climatica. Quadratura che non si è trovata alla COP 16, dove vecchie e nuove potenze hanno guidato i giochi in una dinamica esclusivista e lontana dalle regole del negoziato multilaterale, portando alle sessioni conclusive dell’ultima giornata di lavori un pacchetto preconfezionato sulla falsariga dell’Accordo di Copenaghen, che gli altri governi hanno potuto influenzare ben poco. Così l’Unione Europea si è messa al fianco del vecchio alleato d’oltreoceano, gli Stati Uniti, per tenere testa alle economie emergenti, prevalentemente in difesa dei propri interessi economico-finanziari.
Cancun è stato quindi un successo per quei governi che a Copenaghen avevano spinto un accordo inaccettabile di cui le parti avevano deciso solamente di “prendere nota”. Un successo perché ora i contenuti di quel documento sono stati inclusi nel testo negoziale, allontanando drammaticamente la possibilità di raggiungere un accordo che sia adeguato non solo a riportare le emissioni complessive sotto una soglia di sicurezza, ma anche in grado di fornire ai Paesi poveri gli strumenti necessari ad affrontare gli impatti di un fenomeno che non hanno contribuito a causare, ma di cui si trovano a soffrire gli impatti più severi. Secondo una stima delle stesse Nazioni Unite uscita nel corso del 2010, l’accordo con i suoi impegni volontari di riduzione (ripresi nel testo di Cancun) rischia di immettere la comunità internazionale su un percorso che porterà a un aumento della temperatura complessiva di almeno 4 gradi centigradi, con conseguenze devastanti in ampie regioni del pianeta.
Il documento conclusivo della COP 16 del gruppo di lavoro sulla cooperazione a lungo termine riprende le stesse promesse fatte dagli Annex 1 un anno fa nella capitale danese. Promesse come quella finanziaria, di “mobilitare” (e non trasferire) una cifra che si avvicina ai 30 miliardi di dollari tra il 2010 e il 2012, equamente bilanciata tra adattamento e mitigazione, destinata in via prioritaria ai paesi in via di sviluppo “più vulnerabili”, che dovrebbe poi raggiungere i 100 miliardi entro il 2020. Una cifra ampiamente inadeguata, nemmeno vicina alle stime di finanziamenti necessari, che secondo le stesse Nazioni Unite sarebbero nella scala di 500-600 miliardi all’anno (UNDESA, novembre 2010), e che i governi contano di racimolare anche attraverso il mercato dei capitali, trasferendola poi nella forma di prestiti che i governi dei Paesi poveri dovranno ripagare, e non a titolo gratuito come stabilito dai principi della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (UNFCCC).
Anche la creazione di un Fondo verde per il clima (Green Climate Fund) inclusa nel testo presenta numerose ambiguità. Prima su tutte il fatto che la sua gestione sia stata affidata alla contestata Banca Mondiale, invece di essere decisa ad esempio sulla base di un bando internazionale aperto. Sul tavolo c’erano due proposte: quella di istituire un meccanismo nuovo sotto l’autorità della COP, spinta dai 130 governi dei G77, e quella di affidare il mandato alla Banca Mondiale e ad altre banche regionali di sviluppo, richiesta degli Stati Uniti, principale azionista dell’istituzione di Washington e con potere di veto nella sua governance interna. La scelta della Banca Mondiale come trustee del Fondo risulta particolarmente inadeguata se si considera che l’istituzione risulta a oggi tra i più grandi finanziatori di industrie inquinanti come quella del petrolio e del carbone – con 6,6 miliardi di dollari destinati solo nell’ultimo anno – e che gli stessi “fondi per il clima” che la Banca già gestisce su mandato di alcuni donatori (tra cui Stati Uniti, Regno Unito e Giappone) vengono utilizzati per finanziare grandi centrali a carbone e solo in minima parte a sostegno di investimenti nelle energie rinnovabili.
La World Bank, inoltre, viene utilizzata per spingere un ampliamento del mercato dei crediti di carbonio. Una prospettiva preoccupante non solo in quanto ad oggi il mercato dei crediti di carbonio si sia dimostrato inefficace sia a ridurre le emissioni complessive, che a garantire il trasferimento di fondi a favore di tecnologie a basse emissioni nei paesi poveri, ma anche e soprattutto visti gli impatti sulla stabilità finanziaria internazionale che potrebbe derivare da un’espansione del mercato stesso. Le compravendite di carbonio avvengono soprattutto sui mercati secondari, con transazioni bilaterali, al di fuori delle regole e dei controlli seppure minimi dei mercati esistenti. Buona parte delle transazioni ha ad oggetto derivati finanziari su cui i grandi investitori cercano di fare lauti profitti a brevissimo termine, con operazioni speculative che in secondo molti potrebbero portare a breve alla creazione di una bolla di dimensioni paragonabili a quella generata dai mutui subprime nel 2008. In pieno conflitto di interessi, la Banca gestisce 16 fondi di crediti di carbonio ed e riceve laute percentuali per le operazioni di brokeraggio che gestisce.
I governi europei ricorderanno Cancun come un successo anche per essere riusciti a espandere l’implementazione di meccanismi flessibili di mercato anche nel negoziato sul lungo termine, gettando le basi per un’espansione dei crediti di carbonio e per un loro utilizzo applicato anche a beni intoccabili come la terra e le foreste, oggetto di capitoli negoziali a sé.
La nostra valutazione come quella di numerosi gruppi della società civile impegnati per la giustizia economica, sociale, ambientale e climatica, esce dal coro delle voci di plauso per il risultato ottenuto a Cancun, dove siamo stati testimoni della sconfitta della democrazia e dei suoi principi di giustizia e equità, e dove i governi industrializzati si sono schierati ancora un volta non dal lato della maggioranza dei cittadini del mondo e della sostenibilità a lungo termine, ma da quello degli interessi industriali, commerciali e finanziari che hanno guidato il pianeta sull’orlo del collasso.
Con le parole della Bolivia, l’accordo di Cancun come quello di Copenaghen rappresentano un “ecocidio”, di cui i nostri governi prima o poi saranno tenuti a rispondere.
Elena Gerebizza