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Il debito pubblico va ristrutturato. Ecco perché

Il debito pubblico va ristrutturato. Ecco perché

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Oggi in Europa, in ambito mainstream, esistono fondamentalmente due approcci al problema del debito pubblico, perlomeno in Europa: quello rigorista e quello pseudo-keynesiano (vedremo poi perché “pseudo”). Il primo – che dal 2010 in poi ha monopolizzato il discorso pubblico europeo e fornito il necessario sostegno teorico, ideologico e mediatico al “regime di austerità” – afferma che uno stato è come una famiglia o un’impresa: quando si accumulano troppi debiti, l’unico modo per ridurli è tagliare le spese. In sostanza, considerando che il rapporto debito/Pil è costituito da un numeratore (debito) e un denominatore (Pil), l’approccio rigorista interviene sul numeratore, aumentando l’avanzo primario dello stato (l’eccedenza delle entrate rispetto alle uscite, escludendo gli interessi sul debito) con l’obiettivo di liberare risorse da destinare al servizio del debito. Ovviamente ci sono solo due modi per ottenere un maggiore avanzo primario: o si taglia la spesa pubblica o si aumentano le tasse. Il problema di questo approccio (a prescindere dalle implicazioni sociali) è che aumentando l’avanzo primario si riduce il Pil, a causa del cosiddetto moltiplicatore fiscale, e dunque il rapporto debito/Pil aumenta. Il motivo è che un paese che registra un avanzo primario sta di fatto levando risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri. Se poi questa politica viene praticata in un contesto come quello europeo – di bassa inflazione (come quello che registra l’Italia) o addirittura di deflazione (vedi Spagna e Grecia) e in assenza di una banca centrale in grado di agire da prestatrice di ultima istanza e di intervenire sui mercati sovrani per calmierare i tassi di interesse (e senza chiedere misure di austerità in cambio) – è puro masochismo, in quanto si può “consolidare” quanto si vuole, ma il debito continuerà inevitabilmente a salire sia in termini reali, a causa dell’effetto recessivo-deflattivo (ulteriormente esacerbato dalle misure di austerità), sia in termini assoluti, perché molti stati non sono in grado di accumulare avanzi primari sufficienti a far fronte agli interessi, e sono dunque costretti a indebitarsi ulteriormente solo per ripagare gli interessi sul debito pregresso. E infatti, a fronte di alcune delle misure di austerità più estreme mai sperimentate in Occidente, nella maggior parte dei paesi dell’eurozona (soprattutto quelli della periferia) il debito continua a lievitare a ritmi vertiginosi. Il caso dell’Italia è paradigmatico: nonostante il paese registri un avanzo primario fin dai primi anni novanta, il nostro debito pubblico è continuato a salire unicamente a causa della spesa per interessi, per poi esplodere negli ultimi anni. In base alla dottrina rigorista, infatti, il nostro paese avrebbe bisogno di accumulare un avanzo primario pari o superiore agli interessi pagati sul debito, che oggi equivalgono al 5% del Pil (pari all’incirca a 80 miliardi di euro l’anno): una politica insostenibile non solo da un punto di vista economico, per i motivi succitati, ma anche e soprattutto da un punto di vista politico e sociale, per l’entità dei tagli alla spesa pubblica o dell’imposizione fiscale che essa comporterebbe. Eppure questo è esattamente quello che impone il Fiscal Compact, e che il governo si è prefisso come obiettivo nell’ultima finanziaria: ossia, raggiungere un avanzo primario del 5% nel 2018, che dovrebbe poi attestarsi intorno al 4.5% per almeno vent’anni, ai fini (impossibili da conseguire, sempre per i motivi succitati) della riduzione del debito al 60% del Pil previsto dal trattato.

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Tratto da www.eunews.it