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Come funziona il fiscal compact
Molti pensano che delle due regole approvate dall'Unione Europea, quella sulla riduzione del debito pubblico sia più gravosa del mantenimento del pareggio di bilancio. Le cose non stanno così. Se l'obiettivo finale è la crescita economica, ci sono buoni motivi per volere la riduzione del debito pubblico, specie in casi come quello italiano. Non ve ne sono altrettanti per imporre il pareggio di bilancio per sempre. Il fatto che oggi la prima regola possa richiedere il rispetto della seconda non è un buon motivo per vincolare la politica fiscale dei paesi europei nel prossimo decennio.
Il fiscal compact, approvato ieri da venticinque paesi dell'Unione Europea, ridotto in pillole contiene due regole. La prima (da alcuni definita, non si capisce bene perché, golden rule) è il pareggio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5 per cento del Pil nel corso di un ciclo economico. La seconda regola fissa un percorso di riduzione del debito pubblico in rapporto al Pil: dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60 per cento.
REGOLE, RECESSIONE E TEMPI NORMALI
In che relazione sono tra loro queste due regole? A giudicare da molti commenti italiani sembra che quella sul debito sia la regola più severa. Così, si tira un sospiro di sollievo osservando che il fiscal compact prevede deroghe per “fattori rilevanti”. La regola sul pareggio di bilancio, invece, apparentemente viene accettata senza troppe discussioni. Peraltro, una riforma costituzionale in tal senso è stata già approvata in prima lettura da un ramo del Parlamento.
In realtà, se guardiamo un po’ oltre la contingenza attuale, la regola sul debito è in genere meno severa di quella del pareggio di bilancio. Se il bilancio è in pareggio, non si genera nuovo debito. In altre parole il debito in euro non cambia. Ogni variazione del Pil nominale si tradurrà, quindi, in una variazione del rapporto debito/Pil. Si può calcolare facilmente che per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120 per cento del Pil e il pareggio di bilancio è sufficiente che il Pil nominale cresca del 2,5 per cento; con un debito al 100 per cento del Pil basta una crescita nominale del 2 per cento; con un debito all’80 per cento è sufficiente l’1,25 per cento. In tempi appena normali sono valori bassi. Perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6 per cento l’anno.
Le cose vanno diversamente quando c’è una grave recessione: il Pil nominale può anche diminuire (in Italia, nel dopoguerra, è accaduto solo nel 2009) o crescere molto poco: intorno al 2 per cento nel 2010 e secondo le previsioni per il 2011-2013. Il sospiro di sollievo per l’attenuazione della regola del 1/20 può essere, quindi, giustificato oggi.
In condizioni normali, tuttavia, dovremmo preoccuparci di più della regola del pareggio di bilancio. E forse nel valutare le nuove norme europee dovremmo considerare quale sarà il loro effetto in tempi normali dell’economia.
Il primo grafico mostra la dinamica del rapporto debito pubblico/Pil in Italia a partire dal 2010: secondo le stime ufficiali (corrette con gli importi della manovra di dicembre) fino al 2014 e poi in discesa secondo la regola del 1/20. Si parte dal 118,4 registrato per il 2010. La discesa inizia a essere significativa, per effetto delle manovre già approvate, nel 2013 e poi prosegue, secondo la regola, a un ritmo decrescente: da una riduzione di 2,7 punti nel 2014 a circa 2 punti nel 2018, a circa un punto nel 2030. Per inciso, diversamente da quello che a volte si dice, la regola non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo della differenza tra 120 e 60) per vent’anni. Man a mano che il debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60 per cento si riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza. Naturalmente ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60 per cento. Partendo dal livello attuale, la regola comporta per l’Italia nel 2033 un rapporto ancora all’80 per cento.
Quale saldo di bilancio sarà necessario in futuro per ottenere questi risultati? Naturalmente dipenderà dal tasso di crescita del Pil e dal tasso di interesse sul debito. Il grafico 2 mostra l’avanzo primario e il saldo totale (indebitamento netto) necessari per rispettare la regola sul debito, proiettando nel futuro le ipotesi ufficiali per il 2014: crescita reale del Pil all’1 per cento, crescita nominale al 2,7per cento, costo medio del debito al 5,5 per cento (quest’ultimo maggiore di 1,3 punti rispetto al valore previsto per il 2011). Sono ipotesi che non appaiono ottimistiche in un’ottica di lungo periodo.
Sotto queste ipotesi, l’avanzo primario dal 6,4 per cento previsto per il 2014 potrebbe scendere al 5,7 per cento l’anno successivo , al 4,5 per cento nel 2022 e così via. Ciò non richiederebbe il pareggio di bilancio, bensì sarebbe coerente con un disavanzo totale tra lo 0,5 e l’1 per cento del Pil lungo il periodo considerato. Ipotesi più favorevoli sulla crescita del Pil e sui tassi di interesse rendono renderebbero ancora meno necessario il mantenimento del pareggio di bilancio. Renderebbero possibile, sempre mantenendo gli obiettivi di riduzione del debito, l’adozione di una vera golden rule, quella che consente di finanziare in disavanzo le spese di investimento.
I trattati e le regole dovrebbero essere pensati per durare. Se l’obiettivo finale è la crescita economica, ci sono buoni motivi per volere la riduzione del debito pubblico, specie in casi come quello italiano. Non ve ne sono altrettanti per imporre il pareggio di bilancio per sempre (Si veda un mio precedente intervento a riguardo e questo articolo di Tito Boeri e di Fausto Panunzi). Il fatto che oggi, in pratica, la prima regola possa richiedere il rispetto della seconda non è un buon motivo per vincolare in modo poco ragionevole la politica fiscale dei paesi europei nel prossimo decennio.