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Se fosse sempre vero che più forti sono gli attacchi più si rafforza l’identità degli attaccati, per gli insegnanti della scuola pubblica sarebbe il momento del teaching pride. E del superamento delle molte incertezze che caratterizzano da tempo la percezione e l’esercizio concreto del proprio ruolo professionale. Ma è difficile che questo possa avvenire senza la politica. Senza decisioni, cioè, o almeno proposte capaci di dare soluzione a problemi irrisolti da anni, che logorano insieme identità professionale e credibilità sociale: la formazione iniziale e un reclutamento che prosciughi lo scandalo del precariato; una formazione continua rigorosa, obbligatoria e verificata nei suoi risultati; la controllabilità e valutabilità degli esiti dell’insegnamento; il riconoscimento dei diversi specialismi e funzioni; lo sviluppo di carriere basate non sull’anzianità ma sulle qualità e sull’impegno professionale; la ridefinizione e l’articolazione degli orari; la destinazione ad altri compiti degli incapaci dimostrati e irrimediabili. Se le belle definizioni di un giorno – “eroi democratici”? – possono scaldare i cuori, non bastano però a cambiare i dati di fatto. Ed è sempre più evidente, non solo nella scuola, che agli attacchi reazionari non si può rispondere sventolando le bandiere della conservazione. Che la difesa dell’esistente da tanto tempo non basta e non convince.
Eppure non mancano, nelle reazioni, i rischi di arretramento e involuzione. È vero, per esempio, che il combinato disposto tra gli attacchi ai cattivi maestri che inculcherebbero valori diversi da quelli desiderati dalle famiglie e l’enfasi sul buono scuola in nome della libertà di educazione ripropone per l’ennesima volta – e inasprita dai tagli “lineari”che si abbattono sulla scuola pubblica – una strategia di oggettivo favore alle scuole private. Ma le contrapposizioni di segno eguale e contrario non portano a niente. Alle private si va o si vorrebbe andare anche perché sembrano assicurare quello che spesso il pubblico non ha offerto neppure ai tempi delle vacche grasse, lingue straniere fin dalla materna, assistenza pomeridiana allo studio individuale, velocizzazione dei percorsi per chi è in ritardo scolastico, nuove tecnologie in aula, la continuità degli insegnamenti, prestigio sociale. Come uscire dalla stucchevole rissa tra guelfi e ghibellini se non con la strategia, peraltro divenuta norma già da un decennio, del governo pubblico di un sistema plurale in cui obbediscano alle stesse regole istituti gestiti dal pubblico e istituti gestiti da soggetti privati? Se non con l’introduzione nella scuola pubblica, anche se si dovessero modificare assetti e convenienze tradizionali, di quello che serve per essere in grado di competere negli stessi ambiti che rendono talora più attrattive le scuole private? Ma sembrano esserci ostacoli al recupero di questo approccio.
Terreno scivoloso, del resto, quello su cui si appuntano gli attacchi alla scuola pubblica. Perché mirano a sgretolare l’alleanza tra famiglie e scuola in una fase in cui è sempre più diffusa tra i genitori la convinzione che la scuola debba essere in continuità con la famiglia. Che debba piegarsi e conformarsi a quel clima di morbide protezioni, indulgenze, complicità, assenza di regole e timore di farle rispettare che caratterizza in molte famiglie della classe media il rapporto tra genitori e figli. Mai come oggi ci sono state tante denunce a dirigenti scolastici e insegnanti per una bocciatura o per una sanzione. Non c’è tentativo di contrastare il bullismo, di far rispettare le regole, di far pagare i costi dei danneggiamenti che non venga contestato o contrastato. Perfino nei casi più gravi, è frequentissimo che i genitori prendano le parti dei figli aggressori senza alcuna considerazione né delle vittime né delle regole della convivenza scolastica. Nel familismo dilagante dei nostri tempi, si sta facendo sempre più debole l’idea che la scuola per sua natura e ruolo sia e debba essere un luogo educativo diverso da quello della famiglia. Non divergente o contrastante, ma diverso perché più aperto, più ricco, più plurale di quanto possa mai esserlo qualsiasi contesto familiare. Spazio pubblico oggettivamente inclusivo in cui si incontrano alla pari ragazzi di diverse condizioni sociali e culturali, sani e disabili, italiani e stranieri, cattolici e musulmani, capaci e meno capaci. Spazio plurale in cui si manifestano senza la pretesa di prevalere diverse opinioni, punti di vista, sensibilità culturali, scelte religiose. Spazio di relazioni tra adulti e giovani, e di giovani tra loro, in cui far maturare consapevolezza civica, intelligenza e rispetto delle istituzioni, condivisione dei principi e delle regole della convivenza democratica, motivazioni alla partecipazione attiva alla vita della comunità, esperienze di solidarietà. Cultura, insomma, nel senso pieno del termine. È questo ruolo inclusivo, strategico per la democrazia, che oggi è intenzionalmente sotto attacco. Ma le risposte sono inevitabilmente deboli se non tengono conto e non contrastano i fenomeni di privatizzazione familistica che interessano anche la scuola pubblica. La ricerca di tante famiglie di scuole senza stranieri, di aule senza disabili, di sezioni omogenee dal punto di vista sociale; e anche di insegnanti che lasciano correre, che non vogliono vedere quello che non va, che per insipienza o indifferenza abdicano al loro ruolo e alle loro prerogative. Sono processi che vengono da lontano, ma da non sottovalutare perché ne vengono indeboliti il ruolo della scuola pubblica, la sua credibilità sociale, la sua autorevolezza. Qui, anzi, c’è un terreno importante di battaglia politico-culturale, in cui gli insegnanti e i dirigenti scolastici migliori sono spesso lasciati soli. Proclamare il valore per la democrazia del sistema scolastico pubblico serve a poco se si lasciano senza sostegni i maestri e i professori che reinventano ogni giorno nei quartieri più difficili i modi per prevenire la marginalità giovanile e gli abbandoni precoci; per combattere la segregazione formativa; per contrastare stereotipi e pregiudizi xenofobi; per far crescere tutti in intelligenza e capacità. E sicuramente non basta se non si ricostruiscono le condizioni per avere ovunque una scuola pubblica autorevole, efficace, e anche in grado di fare assai meglio di quanto non faccia oggi.
Il 20% di ragazzi che non conseguono né un diploma né una qualifica professionale – il doppio della media UE degli early leavers – è lì a ricordarlo. In modo più stringente di qualsiasi indagine OCSE.