Home / Newsletter / Newsletter n. 99 - 24 novembre 2010 / La crisi e le politiche sociali

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La crisi e le politiche sociali

18/11/2010

La sottovalutazione della crisi e, in particolare, delle sue cause di natura reale continua ad essere uno dei maggiori ostacoli al superamento della crisi stessa.
Una spiegazione di questo diffuso atteggiamento va individuata nel persistente predominio sia dei forti interessi economici sia delle visioni politico-culturali legati alle modalità di funzionamento assunte dal sistema economico negli ultimi tre decenni.
La «Grande crisi» esplosa nel 2008, il cui decorso è ancora incerto, si è manifestata inizialmente nelle Borse e nel sistema bancario a livello internazionale; ciò ha contribuito a un’interpretazione diffusa che la sua natura sia essenzialmente finanziaria; invece, la crisi riflette anche e soprattutto contraddizioni di natura reale delle relazioni economiche, sociali e politiche tuttora irrisolte.
Le cause più recondite della crisi sono :

• L’aumento dell’incertezza nei mercati, che negli ultimi tre decenni è stata sottovalutata dalle teorie economiche prevalenti, proprio mentre veniva accentuata nei fatti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia;

• Il contemporaneo indebolimento delle istituzioni e delle politiche economiche e sociali preposte a compensare l’instabilità dei mercati;

• Gli effetti negativi dell’accresciuta sperequazione distributiva sugli equilibri economici e sociali;

• La fragilità del processo di crescita affermatosi negli ultimi trent’anni, indotta – oltre che dalla finanziarizzazione dell’economia -, dalle cosiddette «bolle» (new economy, settore immobiliare, ecc.), dal “credito facile” (al consumo, per mutui, ecc) e dagli squilibri nelle relazioni tra paesi sviluppati e paesi emergenti.

Nella generalità delle maggiori economie occidentali, la caduta del PIL ha assunto entità mai raggiunte dall’ultimo dopoguerra; la disoccupazione nei paesi europei è oltre il 10% e la situazione italiana non è affatto migliore; anzi, considerando i lavoratori in cassa integrazione e i tassi di attività strutturalmente più bassi, è ben peggiore.
La crisi pone la necessità di rifondare i meccanismi della crescita economica e sociale basandoli non solo sul miglioramento della capacità e delle condizioni dell’offerta, ma anche su una domanda che sia adeguata e sostenuta da fonti di finanziamento più solide; cioè una domanda che sia alimentata da:

• una distribuzione del reddito meno sperequata,

• da prospettive salariali più dinamiche e certe,

• da politiche sociali che diano implementazione e sicurezza alle condizioni di vita e al reddito lungo l’intero arco dell’esistenza individuale.

Queste condizioni, peraltro, nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale, avevano caratterizzato la cosiddetta “età dell’oro” dei paesi occidentali, contribuendo al più efficace tentativo di conciliare il mercato con la democrazia sostanziale.
La natura e le cause della crisi attuale indicano, in particolare, la specifica necessità di riconsiderare il ruolo delle politiche sociali e delle istituzioni del welfare state il cui sviluppo storico è stato non tanto una conseguenza della ricchezza materiale e civile dei paesi economicamente più avanzati, ma – soprattutto – uno dei suoi presupposti non secondari.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, oltre alle cattive applicazioni e ad alcune patologie dell’intervento pubblico che certamente andavano e vanno rimosse, sono state messe in discussione anche le sue consolidate capacità di poter efficacemente sostituire, compensare, integrare e valorizzare l’azione del mercato.
Nelle specifiche esperienze nazionali, la spinta a contenere la spesa sociale è stata superiore quando hanno pesato maggiormente politiche economiche e imprenditoriali miopi, rivolte più a migliorare la competitività di prezzo mediante la riduzione degli oneri salariali che non ad aumentare la competitività qualitativa con la diffusione del capitale umano e delle reti di sicurezza che favoriscono l’innovazione.
Il prevalere di queste politiche di corto respiro, che tendono a valutare la spesa sociale come un costo che pregiudica la crescita anziché un investimento che la favorisce, ha contribuito al cosiddetto declino dell’economia italiana, alimentando il circolo perverso della corsa al ribasso delle condizioni economiche e sociali.

 

La nostra spesa sociale complessiva, pari al 26,7% del PIL sembra di poco inferiore alla media europea, che è pari al 26,9%, ma questo dato è influenzato dalla minore crescita negli ultimi anni; infatti, se si fa pari a 100 la media europea della spesa procapite, il dato italiano è pari solo a 83.
La complessiva spesa sanitaria italiana rapportata al PIL è inferiore a quella media sia dei paesi europei sia di quelli OCSE, ed è pari a poco più della metà di quella degli Usa.
La quota pubblica della nostra spesa sanitaria complessiva è del 77%, in linea con quanto avviene mediamente nei paesi europei e di poco superiore rispetto alla media dei paesi Ocse tra i quali, però, ci sono anche gli Stati Uniti, dove la quota pubblica è solo del 46%.
Quest’ultimo dato aiuta a spiegare il fatto che circa il 15% dei cittadini americani non sono sufficientemente poveri da poter avere una copertura pubblica, ma non sono nemmeno sufficientemente ricchi da potersi permettere una assicurazione sanitaria privata.
Questa sconcertante combinazione di una spesa sanitaria che è elevatissima ma non consente una copertura completa nel paese più ricco del mondo – mentre in Europa è la norma – è la riprova empirica di quanto la stessa teoria economica liberale ha ben spiegato, ovvero che nel settore sanitario il mercato incontra serie difficoltà a soddisfare la domanda di buona salute e di igiene pubblica in modo efficace, efficiente ed equo. Non è un caso che negli Stati Uniti, seppure a fatica, proprio in connessione alla crisi che evidenzia i limiti del mercato, sia stata attuata una nuova politica sanitaria tesa a colmare le lacune del sistema di welfare.
In Italia, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL è di circa il 7%, cioè quasi un punto in meno rispetto alla media dell’Europa a 15. Il divario però è molto più sensibile se si considera la spesa procapite a parità di potere d’acquisto: la nostra è inferiore del 20% rispetto alla media europea. Questo divario nel 2001 era solo del 12%.
Tuttavia, con l’intento di contenere ulteriormente la spesa sanitaria pubblica, sono in corso i cosiddetti piani di rientro i quali dovrebbero accentuare il controllo d’efficacia delle prestazioni ma – più strategicamente – intendono modificare i rapporti centro-periferia e pubblico-privato nel settore sanitario.
I costi standard, che sembravano essere la grande novità del federalismo, non sono ancora esattamente definiti, ma, per come sono stati presentati di recente dal governo, non influenzeranno affatto il fabbisogno sanitario nazionale; la loro adozione come criterio di ripartizione territoriale del fondo sanitario potrebbe peggiorare le diseguaglianze finanziarie regionali senza migliorare l’efficienza, l’efficacia, e l’appropriatezza della spesa nelle regioni meno virtuose.
Obiettivi strategici per la collettività come la prevenzione e la sicurezza dell’igiene ambientale e alimentare, naturalmente perseguiti con l’intervento pubblico, saranno resi più difficili dai tagli di spesa ipotizzati, con il rischio aggiuntivo di accentuare le differenze territoriali.
Il Libro Bianco del Ministero del Lavoro, pur essendo stato varato un anno dopo l’esplosione della crisi, che segna uno spartiacque anche nella teoria economica, non sembra averne colto le implicazioni per il dibattito stato-mercato; mentre in tutto il mondo si prende atto della necessità di arginare gli effetti drammatici della crescente incertezza che regola le scelte di mercato, appare ancor più fuori luogo l’idea di ridurre il welfare pubblico e il finanziamento a ripartizione, sostituendoli con iniziative private e fondi a capitalizzazione, che anziché contrastare l’instabilità dei mercati l’amplificano.
Una vita «buona» – come è evocata nel Libro Bianco – è sicuramente auspicabile, ma ridurre l’offerta pubblica di sicurezza sociale non accresce le possibilità di realizzarla, anzi, la riduce.